Benché sia
piuttosto preso da altri progetti (n.d.B.: leggete lo scorso post sul
Blog), voglio mantenere il più possibile vivo questo spazio
telematico.
Oggi curerò
una delle pagine nate da poco e lo farò trattando di un tema
videoludico che mi è piuttosto caro: i “Boss” nei videogame.
All'inizio
avevo pensato di costruire questo testo come una sorta di lista dei
preferiti, una classica top-ten... e in effetti, è così che
concluderò il brano. Tuttavia, non volevo discorrere semplicemente
dei nemici di pixel e poligoni che preferisco, quanto piuttosto
accompagnarvi in una riflessione (personale, sì, ma spero
condivisibile e fruttuosa per tutti).
Cos'è un
videogame senza un Boss?
Con questa
domanda tartassante in mente, mi sono arrovellato fino a capire che
in realtà una risposta esiste eccome: basta prendere un qualunque
FPS di impronta classica, brand sportivo o, più in generale,
qualunque gioco basato interamente sul multiplayer.
Bene,
benissimo, ma senza dover fare troppe precisazioni, è chiaro che è
a tutt'altro genere di software a cui penso, quando rifletto su un
elemento come i “Boss”. Giochi pensati ed imbastiti su una
modalità single player, o comunque in cui la presenza di una storia
– palese o nascosta che sia, come ci insegnano, a titolo di
esempio, i vari Souls – va di pari passo con il superamento di
sfide prestabilite, gradini necessari all'avanzamento in vista del
gran finale. Il confronto con i nemici “più grossi” e “più
cattivi”, appunto. I Boss.
Ripensando
ai miei esordi videoludici, non posso che aggiungere accanto a questa
etichetta il suo naturale completamento, citando il celebre sintagma:
“Boss di fine livello”. Già, perché una volta – e la pratica,
in effetti, non si è completamente persa – i videogiochi
scandivano la durata dell'arco narrativo grazie a una struttura
divisa per parti più o meno equivalenti, solitamente caratterizzate
da ambientazioni e soluzioni di gameplay uniche e singolari. Queste
sezioni erano create ad hoc allo scopo di produrre variazioni
nell'esperienza del videogiocatore e stuzzicarne continuamente, così,
la fantasia e l'interesse.
In questo
contesto – e il pensiero vola facilmente a molti platform e
adventure game – i Boss rappresentavano anche e soprattutto un
punto di arrivo e un banco di prova per la propria abilità.
Come sempre
succede ad ogni forma di intrattenimento che sfoci nell'arte, i
videogames hanno poi progressivamente perfezionato sempre più questo
loro aspetto, fino a conferirgli pesi e funzioni mano a mano più
specifiche, più uniche e particolari. È così che le storie narrate
hanno cominciato a farsi più complesse e articolate, gli antagonisti
sempre meno stereotipati, sempre più affascinanti e i Boss, per
diretta conseguenza, sempre più significativi; altri, per un
apparente paradosso, addirittura sono divenuti opzionali, annullando
di fatto la loro raison d'etre originale (ma non il loro
spessore).
Certo,
ancora oggi svolgono in parte quel compito primario, determinando con
la loro presenza dei passaggi obbligatori e caratterizzandosi così
come punti fermi della vicenda raccontata, ma la cornice che sottende
gran parte di questi fenomenali avversari è spesso ricca e
accattivante, tanto da far attendere la loro messa in scena con
trepidazione.
I Giochi di
Ruolo, puri o ibridi, rappresentano ovviamente l'esempio più
eclatante a cui fare riferimento: qui, solitamente, i Boss variano
moltissimo, arrivando ad alternare un giusto mix di avversari poco
approfonditi (ma comunque accattivanti) a vere e proprie nemesi. Per
queste ultime, il più delle volte, l'uscita dall'anonimato non è
affidata a poche righe di codice o a un breve filmato, ma puntano
invece su un ritratto lungo, profondo, ricco di particolari che si
dipanano attraverso gran parte dell'arco narrativo (se non tutto). Il
confronto, quindi, assurge a momento catartico e fondamentale
dell'esperienza videoludica.
Data la
premessa, è però necessario puntualizzare che non sono pochi i
giochi d'avventura, punta e clicca o platform curati anche sotto
l'aspetto della caratterizzazione dei Boss. Il dettaglio, qui, fa da
padrone e l'aspetto visivo del nemico riflette in parte la sua
psicologia, o quantomeno lascia intravedere una porzione della sua
essenza. Il nemico, così, non è più soltanto l'enorme bestia da
affrontare, ma può divenire di tutto – e di tutto, da lui, ci si
può aspettare, compresa una disfatta o un commiato struggente.
Persino gli
FPS, per quanto spesso contaminati da altri generi, si sono talvolta
evoluti in tal senso e la caratterizzazione degli antagonisti è
divenuto un vero e proprio elemento chiave, motivante al fine del
completamento della storia e per una totale fruizione del prodotto
(penso, ad esempio, agli ultimi Far Cry – che pure non sono il mio
“genere”).
Ecco, è qui
dunque che volevo arrivare: a questo punto della mia riflessione,
presentare una lista di preferiti diventa qualcosa d'altro; un
apprezzamento non già rivolto a dei singoli personaggi, ma a tutti i
“nemici” dei videogames che, se mal tratteggiati o poco studiati,
possono con la loro assenza far perdere un po' di luce ai titoli
giocati. Gli stessi titoli nei quali, magari, sono chiamati a
prendere le parti del lato più oscuro.
Cosa
sarebbero, in fondo, i videogames senza Boss?
N.B.=
l'elenco che segue – oltre ad esprimere unicamente una preferenza
personale – può contenere spoiler sui titoli proposti. Ecco perché
invito a procedere con cautela nella lettura ed eventualmente
interromperla in concomitanza delle parti dedicate ai videogame
ancora da giocare.
3
Sif il
Grande Lupo Grigio – Dark Souls
A coloro che
pensano che si tratti di una scelta ovvia, non posso che dar ragione.
Sif è un Boss vecchio stile, ma assieme anche un nemico innovativo.
Per poterlo
apprezzare appieno, ovviamente, è necessario approfondirne il
retroterra – il che, come ben sa un qualunque giocatore della serie
Souls, non è un passaggio immediato: tutt'altro; occorre grande
sagacia e determinazione per scovare tutti i tasselli narrativi
dell'immaginifica ambientazione ideata da Fromsoftware. Sif, credo,
incarna proprio lo spirito della serie, proponendo diversi livelli di
lettura, tutti ugualmente giusti e tutti utili a capirne fino in
fondo la reale valenza.
Scendendo
più nel profondo, se ne può intravedere (anche solo dopo la sua
morte e col proseguire dell'avventura) l'essenza: non più nemico
casuale, ma protettore di una tomba (fittizia, forse, ma comunque
simbolica). Il luogo ove riposa il suo padrone e amico, Artorias.
La leggenda
si dipana ulteriormente giocando il DLC e una nuova chicca si
aggiunge al tutto, mostrando un'introduzione diversa rispetto a
quella del capitolo principale (se lo si affronta da un certo momento
in poi). Ecco, quindi, che al primo impatto, estetico e solo
intuibile, se ne aggiunge un altro, più emotivo e legato a una vera
conoscenza del nemico.
Sif è uno
di quei Boss che, rigiocando Dark Souls, si ri-affronta con occhi
completamente diversi e una partecipazione sempre maggiore.
2
Sephiroth –
Final Fantasy VII
Eh, lo so.
La maggior parte di voi mi accuseranno di essere nostalgico, mentre
un'altra parte consistente (che chiamerò amichevolmente “haters”)
diranno che sono un fan che non ragiona più.
Beh, scusate
la franchezza, ma chi se ne frega!
Contro ogni
ragionevole dubbio, Sephiroth incarna l'idea stessa di antagonista e,
credo, il primato non dipende solo dalla sua età videoludica. È
piuttosto un'autorevolezza che premia un character design ispirato e
azzeccato, che ben si sposa con il profondo stile
punk-fantascientifico del settimo capitolo. Ciliegina sulla torta,
trasmette anche lo spirito dello stile esagerato – a tratti
pacchiano, ma più spesso accattivante – degli anime e manga del
Sol Levante. La sua katana affilata e lunghissima diviene così
un'arma iconica quanto la cascata di capelli grigi e l'espressione
serafica perennemente dipinta sul volto, mista di superbia, rabbia e
tristezza in egual misura.
Super
soldato di fatto, oltre che per concept, questo villain è il
motore vivo e pulsante della narrazione e presenta una notevole
profondità psicologica, mostrata per mezzo di flashback e svariate
righe di dialogo.
Il tema che
accompagna il duello finale è stupendo e sembra musicato sulla
falsariga del personaggio, aggiungendo un tocco di poesia sonora al
già ottimo quadro estetico e psicologico.
Il momento
di climax, poi, che culmina nella contrapposizione del solo
protagonista all'antagonista in una sorta di dimensione priva di
profondità – un oblio dello spazio e del tempo – assume quasi la
rilevanza di un riscatto mentale di Cloud, chiamato a liberarsi da
quella prigione di fantasmi e ombre del passato in cui il terribile
Sephiroth l'aveva un tempo calato.
C'è solo da
sperare, ormai, che la trasposizione su PS4 sia in grado di replicare
l'incredibile impatto visivo e narrativo che questo personaggio si
porta dietro.
1
Psycho
Mantis – Metal Gear Solid
Eccolo, il
re del mio podio, l'assoluto vincitore di questa difficile
classifica.
Benché il
suo background sia meno approfondito di quello di altri Boss e,
soprattutto, più centellinato durante l'arco narrativo, non potevo
che affidargli il compito di rappresentare il massimo esponente della
categoria. Perché?
Beh,
semplicemente perché trovo che sia l'esempio perfetto di Boss di un
videogame – o quantomeno, l'esempio più vicino alla mia idea di
Boss.
La sua
vicenda personale non è affatto delle più semplici, né se ne può
ignorare l'intrinseca tragedia, ma si sposa perfettamente con la
caratterizzazione estetica e psicologica del personaggio. Benché
rilevante per comprenderne la natura, la sua storia è in buona parte
slegata dalla trama, che lo vede entrare in scena più come
oppositore – o aiutante dell'antagonista, che dir si voglia – che
come vera e propria nemesi con cui fare i conti. Ad essere onesti,
anche questa sua essenza da “elemento secondario”, quasi di
contorno, finisce per aggiungere valore alla sua figura.
Intendiamoci, non dico che non abbia il suo ruolo, ma siamo ben
lontani dall'impatto narrativo di Liquid, di Ocelot (in virtù,
anche, dell'exploit dopo i titoli) o di Sniper Wolf (qui, invece, per
il legame instauratosi con Otacon).
Da un punto
di vista estetico, la sua immagine è riuscitissima, poiché nella
sua semplicità restituisce immediatamente le impressioni di mistico
e inquietante che lo caratterizzano: è di una magrezza scheletrica,
segno somatico che riflette la sua fragile condizione mentale, ma
indossa abiti attillati e poco coprenti e una maschera antigas, una
linea in netto contrasto con quanto ci si aspetterebbe parlando di un
personaggio cerebrale. La maschera inquietante – e il suo respiro
filtrato che strizza l'occhio a Darth Vader – assumono un
significato diverso, dunque, nuovo e profondo: un mix che lascia
intravedere l'ambito militare in cui è vissuto, il devastato
retroterra biografico e la mentalità disturbata.
La
psicologia non è da meno, anzi: si espone cruda e violenta, senza
mezze misure, mettendo in luce tutte le difficoltà di una vita irta
di ostacoli e consumata dalla guerra – quella esterna che lo ha
costretto a divenire una sorta di “esperimento vivente” e quella
interna, in un gioco terribile di contrasti tra emozioni, istinti
repressi e un mondo fittizio creato ad arte al solo scopo di
contenerli. Ne risulta una mentalità deviata, ma anche vittima di un
contesto sfavorevole e di un dono troppo grande per essere gestito.
Arrivando al
gameplay, infine, abbiamo un trionfo di idee innovative, stratagemmi
ludici e, come ciliegina, una vera e profonda conoscenza del
videogiocatore e delle sue aspettative.
Cambiare
porta del joypad per poter evitare la lettura del pensiero, leggere
la memory card per scavare nei ricordi o far vibrare il controller
per dimostrare la telecinesi sono le soluzioni di meta-gioco più
credibili e azzeccate che si potessero escogitare per rendere la
dimensione extra-sensoriale di questo incredibile Boss.
Psycho
Mantis è – e rimarrà, temo – il più bel nemico della (mia)
storia dei videogames.