martedì 27 settembre 2016

BlogScreen: Lo chiamavano Jeeg Robot

 


Partiamo da un presupposto: non sono un gran esperto di cinema italiano (sarebbe meglio dire “di cinema” in generale) e infatti non guardo molte pellicole nostrane, ma questo non significa che non ne abbia affatto un'idea – o che si tratti di una declinazione peggiore di quella hollywoodiana.
Per la verità, mai come in questo caso potrebbe valere il famoso motto “due pesi e due misure”: il budget delle produzioni del nostro amato stivale è certamente più basso di quasi tutti – se non proprio tutti – i film che vengono finanziati in America e che io tendo a guardare al cinema (come avrete edotto dalle altre recensioni su questo Blog).
Certo, certo, si potrebbe spendere un fiume di parole per evidenziare le differenze che passano tra le due categorie, ma più in generale diciamo che alla profonda introspezione psicologica delle nostre pellicole (non comico-demenziali, se proprio vogliamo fare una precisazione) corrisponde anche una minor vivacità delle scene e un contesto piuttosto realistico.

Lo chiamavano Jeeg Robot” rientra perfettamente in questa analisi, ma sfonda le pareti imposte dalla sua provenienza, impedendo una categorizzazione tanto schematica – un'operazione che solo un ottima pellicola può riuscire a compiere. Anzi, a conti fatti non si limita a questo, ma evidenzia come il mio stereotipare (e come me, molti altri lo fanno spesso) sia soltanto una congestione critica, un piccolo malanno analitico perfettamente guaribile.
In questo film, l'azione passa con facilità dal movimento frenetico all'attimo contemplativo e la psicologia dei personaggi è perfettamente analizzata, spesso da vicino e con la lente d'ingrandimento, senza dover per forza ricorrere a monologhi e riflessioni in sottofondo, a silenzi troppo lunghi e sovraccaricati di significati.
Questo è probabilmente il più grande merito di “Lo chiamavano Jeeg Robot”: la sua completa fruibilità, la sua accessibilità. C'è di più! Questo pregio non degenera in una limitazione: non si riduce ai minimi termini, escludendo ogni altra possibile declinazione, anzi. A voler approfondire, a volercisi immergere più a fondo, è possibile scorgere i connotati più reconditi dei personaggi e procedere a diversi livelli di lettura.
No, no, non è un film pesante – a chi, come me, tende a preferire pellicole che non implichino uno sforzo di tipo intellettuale o riflessivo.
No, no, non è un film d'azione nel senso stretto del termine – a chi si fosse fatto l'idea sbagliata.
No, no, ancora una volta: non è neppure un film d'ispirazione giapponese, a chi fosse stato tratto in fallo dal titolo. Beh, l'impronta fumettistica (forse più “comics” che “manga”) è particolarmente evidente, ma confinata comunque entro i limiti e gli scopi della sceneggiatura – per altro abbastanza buona.

Non saprei dire chi sia più capace tra gli attori principali, tutti ottimi (anche se Ilenia Pastorelli spicca nel suo ruolo), né ho critiche particolari verso la regia. Trovo semplicemente che cast, operatori e direttori procedano in un perfetto equilibrio verso il confezionamento dell'opera e che l'amalgama delle singole parti restituisca una sensazione di completezza e ottima resa finale.

La trama, che rimane interessante e originale se si pensa al contesto nostrano, è piuttosto semplice: un criminale di bassa lega, che si appoggia a una risma di individui più pericolosi di lui – ma comunque facenti parte della bassa marmaglia della “peggio Roma” – durante una fuga rocambolesca finisce per entrare in contatto con una non meglio precisata sostanza radioattiva. Non viene fornita alcuna spiegazione circa la presenza di questo elemento nel film, e la cosa è voluta: il rifiuto chimico è infatti solo il pretesto per avviare la macchina narrativa e non ha una reale importanza nella storia (salvo tornare sul finale), se non per giustificare ciò che accade al protagonista. Enzo Ceccotti, l'atipico eroe della vicenda, ottiene infatti dei superpoteri.
Deciso a sfruttare i suoi nuovi doni (forza e resistenza inumane, oltre a una rigenerazione di ispirazione wolveriniana), opta per una via legata a doppia mandata alla sua vita da criminale, se non fosse che...
Beh, senza andare sul banale e lo scontato, il pretesto per il cambiamento interiore e morale del protagonista avviene ovviamente grazie a una donna, la co-protagonista Alessia, che si delinea sin da subito come il personaggio più singolare della pellicola e che ha una chiara ossessione (nel senso clinico del termine) per l'opera di Tatsuya Yasuda e Gō Nagai, il “Jeeg robot d'acciaio” che dà il titolo al film stesso.
In un contesto ispirato ai fumetti, non può mancare un antagonista sopra le righe... e infatti c'è: lo “Zingaro”, un criminale che con certi suoi vezzi e scatti d'ira ricorda una sorta di “Joker” Batmaniano. Ok, adesso la finisco con questi aggettivi “su licenza”.

Il punto è che il tutto viene presentato in modo non solo credibile e realistico (con l'ovvia sospensione dell'incredulità), ma anche vicino al nostro mondo quotidiano – almeno, a quello risultante dalla cronaca giornaliera (nera o meno). Non appare quindi strano che l'eroe venga idolatrato da graffitari vari e dal popolo di YouTube, nonostante la sua scorrettezza, o che i suoi nemici siano coinvolti in loschi affari con note organizzazioni malavitose, oppure ancora che una partita di calcio, una ruota panoramica o persino un centro commerciale possano divenire l'ambientazione perfetta per il consumarsi di azioni inumane o, ancora, tenerissime.
“Lo chiamavano Jeeg Robot” rappresenta un esperimento riuscito che merita certamente una visione anche da parte del più scettico spettatore nostrano, lo stesso che magari non si aspetta altro, dal cinema italiano, che l'ennesimo cinepanettone.

venerdì 23 settembre 2016

La qualità meno evidente

La costanza è probabilmente la qualità più importante e nel contempo più bistrattata tra quelle prese in esame quando si parla di scrittori.
Vedo e sento spesso – sui social, sui forum in generale, ma anche solo chiacchierando dal vivo – che il talento è considerato il non plus ultra delle caratteristiche desiderabili. Dopotutto, se uno è portato per qualcosa, certamente gli riuscirà facile eseguirla e avrà ottimi risultati... no?
Beh, no. Non è detto, almeno.
Non voglio sembrare polemico, ma anche supponendo che il mondo sia colmo di persone particolarmente dotate per la scrittura, non credo che il numero di opere scritte e pronte per la pubblicazione ne eguagli il numero. Francamente, dubito persino che lo scarto si attesti sopra la metà.
Perché? Beh, perché la costanza è un elemento chiave, una qualità che non tutti sanno mettere in gioco. No, no, non è innata come il talento: la costanza è alla portata di tutti, solo... più “severa”. Ti affatica, ti fa sudare, ti costringe a fare e rifare le stesse cose mille volte, prima di ottenere il giusto risultato.
In molti, credo, sottovalutano la cruciale importanza della costanza, che assomiglia all'impegno, ma possiede una sua sfumatura. Non è solo il profondere dei propri sforzi in una data attività, ma il suo perpetuarsi nel tempo. Dopotutto, certi risultati non si ottengono in fretta, e la stesura di un libro men che meno.
Sì, ci saranno sicuramente persone ispirate, capaci di realizzare la propria opera in poche giornate; tuttavia, si tratta di casi isolati, più unici che rari. La maggior parte degli scrittori dovrà tornare sulle proprie pagine più e più volte, prima di accumularne il numero necessario a raccontare la storia o il concetto desiderati. Poi occorre rileggere e correggere... e questa operazione potrebbe risultare persino più lunga della prima, a seconda del grado di soddisfazione ricercato (perché di una sfumatura si tratta: nessuno scrittore è mai del tutto contento di ciò che ha appena steso, in una continua corsa verso il miglioramento – piuttosto che verso la “perfezione”).
Ecco perché quando vedo o sento di uno scrittore sconosciuto o magari un po' bistrattato, forse persino canzonato per la sua opera (che, sempre magari, potrebbe essere davvero pessima), mi infiammo un po'.
Non mi sento il difensore degli ultimi, sia ben chiaro, ma un po' di stima, un riconoscimento anche piccolo in apparenza, ma grande nella sua essenza, bisogna concederglielo: ha completato il suo libro. Con un po' di fortuna, lo ha persino pubblicato.
Tempo e impegno, quindi fatica: in una parola, costanza.
A ben pensarci, però, forse la parola che cerco è passione. Ecco, sì: è questa la qualità meno evidente.


lunedì 19 settembre 2016

BlogScreen: Alla ricerca di Dory - Finding Dory




Chi ha visto “Alla ricerca di Nemo”? Tutti? Bene, perché senza il primo della saga, “Alla ricerca di Dory” può essere goduto solo a metà.
No, va bene, ho esagerato: guardare il secondo da solo è possibilissimo, ma decisamente sconsigliabile data la mole di riferimenti e il background (per quel che serve) dei personaggi.
Detto questo, quello che abbiamo di fronte non è certo un capolavoro, ma rimane un buon film.
L'azione ben dosata, le battute abbastanza divertenti (e, per fortuna, non esaurite nei vari trailer) e l'ambientazione marina conferiscono al titolo la stessa verve del suo avo – perché ormai sono passati tredici anni – senza però snaturare troppo l'idea alla base della serie. Ma poi, con solo due film si potrà parlare di serie?

Certo, essendo un lungometraggio animato, molti elementi che normalmente farebbero storcere il naso godono in questo caso di un salvacondotto speciale che permette loro di passare inosservati. Azioni al limite del rocambolesco, sopra le righe, persino contro la logica (e la fisica) diventano perfettamente accettabili, ammantate nel dolce abbraccio di una doppia sospensione dell'incredulità: quella premessa all'ambientazione stessa e una posta più a monte, in qualità di opera digitale destinata a un pubblico giovane.
Questo però non significa che certe scene non appaiano del tutto assurde (qualunque riferimento a una certa sequenza sul finale del film è puramente casuale...), persino agli occhi di chi ha già accettato di trovarsi di fronte a un'opera tra le più frivole (e ben realizzate) della Disney.

Sul lato tecnico posso dire ben poco, non essendo un esperto: i modelli dei vari personaggi e degli ambienti sono resi ottimamente, come sempre, e catturano completamente lo spettatore. Certi scenari, poi, sono un tripudio di colori e dettagli. Anche regia e sceneggiatura reggono benissimo il confronto col vecchio capitolo, riuscendo a proporre una storia dai presupposti già visti in una salsa abbastanza nuova.
La morale di fondo rivisita ancora una volta le dinamiche parentali, ma si tratta solo di un pretesto per “sprofondare” in altre disamine: in particolare, spiccano il bisogno di comprensione verso i meno fortunati e il superamento dei propri limiti naturali o auto-imposti.

Unica pecca veramente negativa, al di là dello schema narrativo ridondante e della leggerezza dei contenuti (ma poi, si può parlare davvero di negatività, qui?), è forse la mancanza di una colonna sonora capace di emozionare come il precedente capitolo. A me, quantomeno, è rimasto in testa solo il theme del vecchio “Finding Nemo”, ri-arrangiato per l'occasione.
I personaggi secondari, occorre specificarlo, risultano meno affascinanti delle comparse che animavano la trama del primo capitolo, eppure conservano una loro personalità e risultano comunque comici. Nulla di eccezionale (di certo non sono il trio degli squali o i pesci dell'acquario che avevano accompagnato Marlin e Nemo precedentemente), ma al “senza lode” va premesso il “senza infamia”.

In definitiva, ci troviamo di fronte a un sequel ottimamente confezionato, fruibile da grandi e piccini quasi allo stesso modo – come tipico dei prodotti targati Disney – e capace di restituire, oltre a qualche risata, un po' del fascino di quel mare digitale che tredici anni or sono ci aveva rapiti.

venerdì 16 settembre 2016

Recensione: Steelheart

Proprio mentre mi accingevo a scrivere la recensione di questo libro, una riflessione mi ha colto all'improvviso: cosa serve a un'idea per essere ritenuta originale e quando invece finisce per essere associata a un Déjà vu?
Un pensiero ha tirato l'altro e ne è venuto fuori un post per il blog (per gli interessati, qui -> http://imondiinpiu.blogspot.it/2016/09/lessenza-di-una-buona-idea.html ), ma la risposta a queste domande potrebbe essere racchiusa proprio in Steelheart.

Il libro in questione è una delle tante produzioni di Brandon Sanderson (di cui in futuro parlerò più diffusamente, forse, ma che ho già citato nell'analizzare un altro suo romanzo proprio su queste pagine). In realtà, è immediatamente visibile a chiunque che non si tratta del suo miglior lavoro, né di quello più ragionato, studiato e preparato. Che poi, dire una cosa simile di uno scrittore che dà addirittura delle lezioni su come creare al meglio le proprie ambientazioni è un po' una bestemmia, ma lasciamo perdere.

Steelheart, primo libro della saga The Reckoners, è un romanzo dall'impostazione semplice e dalla trama piuttosto lineare: la comparsa in cielo di quella che sembra una stella rossa – ma che è, più probabilmente, qualcos'altro di non meglio identificato – coincide con la manifestazione di superpoteri da parte di alcune persone in giro per il nostro mondo. Questi individui, dotati ciascuno di abilità proprie e peculiari (sparare raggi dalle mani, prevedere il pericolo, manipolare l'elettricità e via andare), superano ogni umana concezione e, benché non siano tutti potenti allo stesso modo, lo sono senz'altro più dei loro simili “normali”. Per timore reverenziale, paura e rispetto, vengono chiamati Epici.
La novità getta tutti gli stati nel caos, dato che i superumani sembrano essere tutti dei supercattivi, più che supereroi. Nel giro di pochi anni, ogni sistema politico e civile è stato ribaltato o soggiogato dagli Epici più potenti e il mondo è diviso fra i loro domini, dove i normali esseri umani sono costretti a vivere in povertà e, talvolta, schiavitù.
Steelheart, il super-antagonista ispirato in modo piuttosto plateale a Superman, è fra i più forti e terribili esemplari di questa nuova specie e domina col pugno di ferro sulla città di Newcago (ovviamente, la ex-Chicago), dove però agiscono anche alcuni sovversivi che si sono ribellati al suo dominio e che altro non vogliono se non eliminare quanti più Epici possibili.
Il protagonista, David, che ammira queste persone, vuole a sua volta vendetta verso quei mostri, in particolare verso Steelheart stesso, che ha ucciso suo padre. Uccidere l'unico Epico che non può essere ferito sembra follia, eppure un barlume di speranza c'è. David, infatti, è l'unico che abbia mai visto quel mostro sanguinare...

Bene, come ovvio che sia, l'ispirazione fumettistica è dichiarata e piuttosto evidente.
A farne un libro originale non sono l'ambientazione supereroistica ribaltata (superantagonistica, quindi?) né la peculiare visione di un mondo post-apocalittico.
Persino la storia narrata non brilla per novità, se scomposta nei suoi elementi base, e non occorre cercare lontano. Proprio il “Mistborn” dello stesso Sanderson viene riproposto in una salsa leggermente diversa, ma dai fondamenti riconoscibilissimi: un sovrano tirannico e apparentemente invincibile, un gruppo di nemici secondari altrettanto mostruosi e un manipoli di ribelli che vedono nascere grazie al protagonista una nuova speranza.
Certo, il paragone fila, ma non si può ridurre ai minimi una narrazione che vive della ricchezza dei suoi elementi costitutivi. A banalizzare, non riusciremmo mai a scorgerne la forte personalità. E poi, molte storie si assomigliano fra loro, almeno nell'ossatura: se ci pensate, Mistborn stesso ricalca i presupposti e le vicende del primo Star Wars, a grandi linea. Persino i grandi classici possono venire sminuiti, se li approcciamo in modo troppo superficiale.

L'originalità dove risiede, allora? La troviamo altrove, ovvero nel modo in cui questi elementi sono arrangiati fra loro e presentati al lettore, pezzo per pezzo, senza mai perdere di credibilità. Anche la capacità di rendere verosimile non solo ciò che accade, ma anche ciò che fa da contesto all'intera storia (ovviamente, col supporto della sospensione dell'incredulità) diviene una marca inconfondibile di questo romanzo, un pregio che lo trasforma in qualcosa di più di una semplice avventura per ragazzi.

E i dettagli? Steelheart ne è costellato e, come sempre, Brandon Sanderson è un maestro nel nasconderli senza renderli trascurabili. Le dinamiche stesse alla base della sua ambientazione hanno il sapore di novità, o per meglio dire, si sposano e amalgamano bene agli eventi narrati e ai personaggi presentati. Ogni Epico, infatti, è dotato di un punto debole, tramite il quale è possibile annullare i suoi poteri e, quindi, ucciderlo più facilmente. Proprio la ricerca di questi talloni d'Achille e le elucubrazioni ad essi legati aggiungono a questa storia frenetica le giuste quantità di mistero e investigazione, un mix che rende la lettura sempre interessante e mai stancante, pur senza snaturarne il genere “avventuroso”.

Steelheart non manca di qualche difetto, ovviamente: alcuni poteri sono poco sensati (spesso quelli legati a macchiette); non tutti i personaggi hanno il fascino dei principali protagonisti della vicenda, buoni o malvagi che siano, e risentono del confronto; non tutto è tracciato con la stessa dovizia di particolari e l'immedesimazione si scontra con qualche calo di tensione qua e là. Eventi sporadici, a dire il vero.
Onestamente, credo che Steelheart valga ben una lettura: è un romanzo vivace, leggero forse, ma piacevole e intrigante. Magari non assurge all'Olimpo della narrativa per ragazzi (dove si siede comodamente Mistborn, per contro), ma di certo si presenta come un ottimo candidato.

mercoledì 14 settembre 2016

L'essenza di una buona idea

Stavo per scrivere la recensione di un libro quando, nell'affrontarne i contenuti, la riflessione si è spostata su argomenti più generali, su quelli che, nella stesura del testo narrativo, potremmo chiamare i massimi sistemi.
Avverto subito che ciò che seguirà, benché abbia un suo filo conduttore e sia tutto sommato un testo breve, è l'espressione di un ragionamento arzigogolato e, forse, un pochino ermetico per chi non avesse gli strumenti (o la voglia, o ancora meglio la follia, che è molto meno presuntuoso) per seguire del tutto il discorso.

Ora, al di là delle premesse, in realtà il concetto è piuttosto semplice: le idee originali, quelle buone, sono rare. Molto rare. La maggior parte delle storie di successo fanno leva su eventi, questioni, particolarità e caratteristiche già viste, riconoscibili.
Il punto è: anche senza inventare una serie di elementi nuovi – oppure, senza scoprirne di mai visti prima – è possibile definire cosa renda l'idea alla base di una storia o di un'ambientazione una buona idea? Come fa un romanzo (o fumetto, o film, o scegliete voi il mezzo di trasmissione che preferite) a risultare originale anche senza offrire, nei suoi elementi costitutivi, qualcosa di inedito?
Io credo che tutto stia nell'arrangiamento di quegli elementi costitutivi, al modo in cui li si assembla. Quella è, a conti fatti, l'essenza dell'idea e la sua punta di originalità.
Molti autori di narrativa (ancora una volta, non mi riferisco al singolo mezzo cartaceo) riescono a produrre ambientazioni e storie, persino personaggi se proprio eccellono (perché “nessun personaggio è uguale a un altro e tutti si assomigliano) che non sanno di già visto, che sembrano davvero unici e particolari. I dettagli, solitamente, lasciano quest'impronta digitale, questa marca di riconoscimento, ancor più che la struttura stessa della realtà trasmessa. Tuttavia, a ben pensarci, quella realtà sarebbe scomponibile: gli elementi contenuti in essa possono essere divisi e suddivisi in base alle loro caratteristiche, al loro utilizzo per lo svisceramento della fabula, per l'ingarbugliarsi dell'intreccio, per il loro amalgama.
Eppure, appaiono originali, vivaci, vividi. Talvolta, quando sono davvero dosati con sapienza o con una talentuosa istintività, questi elementi disegnano mondi, personaggi e storie così peculiari, così riconoscibili, così identificabili e facili all'immedesimazione che si può parlare di “prodotto originale”.
Perché il più delle volte, a mio parere, l'idea originale – originale e buona – trova la sua realizzazione proprio in questa perfetta mescolanza: nell'unione e nella disposizione dei suoi componenti basilari. Come l'immagine di un demiurgo che plasma la materia partendo dagli atomi e le dona forme ed essenze particolari, così un autore – che a questo punto potremmo anche chiamare artista – definisce il suo mondo con pochi tratti primordiali, arricchiti poi da altri di contorno che, amalgamati, fanno dell'ossatura e del rivestimento della propria invenzione un insieme finito e fruibile.

sabato 10 settembre 2016

BlogScreen: Independence Day - Resurgence



Allora, per prima cosa lasciatemi chiarire un punto fondamentale: il primo Independence Day è uno dei film che ho visto più volte in vita mia, vuoi perché lo davano spesso in tv e avevo finito per registrarlo su VHS, vuoi perché me lo sono ritrovato poi in casa in tutte le sue reincarnazioni (dvd, digitale e blu-ray). Ora, onestamente, è difficile essere obiettivi nel prendere in esame qualcosa che si è amato, in un modo o nell'altro, ma cercherò comunque di non farmi influenzare. Perciò credetemi se vi dico che questo sequel (in ritardo di venti anni, quasi se ne sentisse l'esigenza) è piuttosto scadente, persino bruttino. Andiamo con ordine.

La trama è semplice, come lo fu per il primo capitolo: gli alieni cattivi sono tornati e la Terra si trova impreparata nell'affrontare la minaccia. Sta a pochi eroi – vecchi e nuovi – togliere le proverbiali castagne dal fuoco.
Il film precedente fece un certo scalpore, quando uscì nelle sale: mettendo in scena un giovane Will Smith, presentava una storia scontata, dai presupposti stereotipati e diverse assurdità nella sceneggiatura (coff coff – sconfiggere un'avanzatissima civiltà con un banale virus per computer – coff coff), ma il tutto era condito da una massiccia presenza di effetti speciali ottimamente realizzati (almeno per il tempo) e risultava godibile nell'insieme. Un film un po' sopra le righe, ma a cui non è stato difficile affezionarsi.
Ora, è chiaro che da questo seguito ci si aspettavano due cose, entrambe – devo ammettere – effettivamente presenti: che gli effetti speciali e l'uso della più moderna computer grafica fossero ai massimi standard e che il film rimanesse leggero e un po' esagerato.
Cosa non torna allora? Beh, quasi tutto il resto.

Va bene prendere una sceneggiatura leggera e non particolarmente pretenziosa, ma un minimo di credibilità devi comunque mantenerla, o la famosa sospensione dell'incredulità va a farsi benedire.
Le coincidenze si sprecano, con personaggi che arrivano a incontrarsi e unirsi nella lotta nei modi più assurdi e forzati che io abbia mai visto. Si sprecano anche le idiozie: se già il primo aveva fatto sollevare qualche sopracciglia per i metodi di distruzione di massa utilizzati dagli alieni (i cui danni sul pianeta avrebbero dovuto comportare terribili cambiamenti climatici e non solo), questo secondo tentativo vi lascerà del tutto increduli, più che stupiti, e per i motivi sbagliati.
Lo so, lo so, una recensione deve cercare di essere “free spoilers”, e non intendo venir meno a questa regola, ma alcune scene venivano presentate direttamente nel trailer e fanno da sfondo alla vicenda sin dalle sue premesse, quindi vado sul sicuro nel dirvi che non ha assolutamente senso vedere una navicella spaziale grande quanto un quarto della Terra posarsi sopra di essa senza, che ne so, cambiarne l'asse o la rotazione e devastarne l'intero ecosistema. Tanto più che l'obiettivo dichiarato degli alieni è proprio questo. E potrei continuare: il gigantesco raggio laser, grande dieci volte quelli dello scorso film, ha il solo scopo di raggiungere il centro della Terra e annullarne così i campi magnetici, eliminando l'intera atmosfera e uccidendo tutto ciò che vi è di vivo. Vogliamo parlare di quanto anche solo l'idea sia sbagliata? Pensano veramente che quella sia l'unica conseguenza? E davvero gli tsunami provocati da questa operazione possono lasciar in vita qualcosa (e soprattutto “qualcuno”, non dico chi)? E l'acqua che poi continuerebbe a defluire nel cratere?
Mettersi a fare l'analisi a raggi x al film è inutile, quasi ogni elemento presentato su schermo pare insensato o fuori posto (come l'assemblea di tutti i paesi del mondo, un simil-ONU, che però vede il solo Presidente degli Stati Uniti d'America decidere effettivamente come, quanto e quando difendersi dalla minaccia interplanetaria).
I dettagli potevano essere curati di più. Beh, va bene: ANCHE i dettagli. Però, voglio dire, pure loro fanno una bella differenza, no? Sembra una sciocchezza, ma se mi dici, anche molto sagacemente, che l'astronave madre degli alieni ha un suo campo gravitazionale (e come non potrebbe, date le dimensioni?), poi non puoi ignorare tutto il resto e farmi andare un'automobile per le strade alluvionate di una città con la marmitta infilata, in certe inquadrature, evidentemente sotto il livello dell'acqua. Ma poi, fosse solo quello. Davvero, non posso stare qui a elencare tutte le cose che non tornano o non hanno senso, faremmo notte.
Ah, sì, sì, è un film molto rocambolesco, pieno di azione, ma la tensione per ciò che sta accadendo o ciò che potrebbe avvenire, onestamente, non la si avverte mai. Così come non si sente un feeling emotivo verso i protagonisti, o le vittime. Tutto sembra accadere in modo inevitabile, quasi meccanico, senza colpi di scena o picchi di pathos. Piatto, nonostante la massiccia dose di voli in astronave, bombardamenti, fuochi di copertura, corse al limite del tempo e morti.

Gli attori sono un'altra nota dolente. Alcuni hanno delle battute oscene, del tutto fuori posto e, onestamente, fuori contesto (una su tutte, un dialogo tra uno dei protagonisti e una comparsa agli ultimi istanti di vita che sembra uno spezzone di un Late Show). Altri, semplicemente, non sanno far bene neppure con ciò che di accettabile si fornisce loro. Persino Jeff Goldblum (David, nel film), Judd Hirsch (suo padre) e Bill Pullman (il Presidente degli USA nella prima pellicola) – i pezzi da novanta di questo sforzo cinematografico (per gli spettatori, mica per altri) – non convincono del tutto, nonostante l'esperienza. Forse si possono salvare i giovani Liam Hemsworth (il fratellino di “Thor”), Jessie Usher (nei panni del miglior pilota di caccia del mondo, come fu per il personaggio di Will Smith nel precedente film) e Maika Monroe (la figlia dell'ex-Presidente), che pur non eccellendo riescono comunque a dar un minimo di spessore a personaggi privi di un forte background, o che nello scorso film avevano funto magari solamente da comparse. Bisogna ammettere, poi, che tutti risentono della povertà dei ruoli che devono impersonare.

Qualcosa di apprezzabile c'è: i molti cameo e la ricomparsa dei vecchi attori fanno sorridere, anche quando sono del tutto senza senso o poco credibili. Il comparto grafico è eccellente. Temo non basti, però.
Nessuna idea originale, mancanza di mordente, una sceneggiatura piena di buchi e l'azione spesso fine a se stessa e poco interessante – oltre che una colonna sonora abbastanza anonima, non fosse che per il vecchio theme – consegnano un prodotto finale che lo spettatore più nostalgico dovrà vedere, solo per poi scuotere la testa al ricordo della vecchia fatica di Roland Emmerich.
E dire che qualche candidatura a qualche premio il film l'ha già ricevuta. Bah.
Era meglio lasciare i morti dove stavano: per me, questa “resurrezione” faceva meglio a non avvenire.

giovedì 8 settembre 2016

L'altra ragione del successo delle App (di giochi)

Un titolo un po' lunghino, stavolta, ma volevo essere esplicito e delimitare con chiarezza i margini della mia riflessione.
Sappiamo tutti che le applicazioni di giochi (per android o ios, non fa differenza) godono di grande successo nel mondo odierno e la ragione più lampante di tutto ciò, quella che anche un criceto che non è mai uscito dalla sua ruota saprebbe darti, è che sfruttano la mobilità degli smartphone per permettere un piccolo momento ricreativo in ogni contesto.
Fin qui, non ci piove: avere tutto il proprio mondo ludico (ma anche social e multimediale) racchiuso in un un unico apparecchio elettronico è una comodità incredibile, senza contare che lo smartphone mantiene la sua funzione principale e vi affianca molte altre che una console portatile non permette. E poi è meno ingombrante, solitamente, o comunque socialmente più accettabile (N.B.: su questo punto in particolare vorrei tornare in futuro, perché mi sento sempre un po' più osservato, se non addirittura criticato, quando gioco al DS in pubblico, quasi si trattasse di un hardware esclusivamente per bambini... ma sto uscendo dal seminato).
Bene, tutto vero, ma viene da chiedersi... e i difetti? Anche quelli sono piuttosto evidenti: software studiati per girare solo su determinate versioni del sistema operativo, oppure appositamente scarsi quanto a grafica per permettere a molte più persone di usufruirne; ma ancora gameplay ripetitivi e a tratti ingenui, sbilanciamenti nelle dinamiche di gioco e piccole operazioni economiche in-app che svuotano il portafoglio digitale di tanta parte d'utenza, impoverendo nel contempo anche l'intera proposta ludica.
Allora come mai il successo delle app di giochi mantiene ancora un tale margine di download e vendite? Come può porsi come il (futuribile) nuovo mercato dell'intrattenimento digitale, con buona pace del sempre-florido-ma-non-troppo settore console?
Io credo che, al di là della già citata portabilità – che svolge certo il ruolo cardine nel grande successo delle game-applications – vi sia un altro fattore che coadiuva al raggiungimento di simili traguardi. L'“offerta continua” o, per meglio dire (tanto sto coniando io questi termini), l'“offerta in continuo miglioramento”.
Già, perché se ci pensate bene, la lotta è impari: sulle console, che pure possiedono una maggiore potenza di hardware, i giochi devono arrivare completi, o al massimo migliorabili tramite qualche patch e ampliabili grazie ai DLC... e stop, nulla più. Il prodotto deve essere finito, chiuso, già intero nella sua essenza al momento del rilascio, o verrà accolto in malo modo da critica e consumatori, fan compresi (si pensi al recente Street Fighter V, commercializzato inizialmente senza la possibilità di accedere all'intera offerta ludica). Questo non accade per le App di giochi, anzi: ci si aspetta che l'opera non sia completa, che sia ancora in lavorazione, e si accettano di buon grado modifiche sostanziose al gameplay, alla durata complessiva dell'esperienza e alle modalità di intrattenimento. Insomma, arrivano con una base (per quanto solida) scarna e si arricchiscono nel tempo.
Certo, il metodo funziona soprattutto per quelle applicazioni rilasciate gratuitamente, dove il rientro economico prende il via per mezzo di pubblicità o piccole spese interne al gioco, mentre dall'altro lato abbiamo dischi dal costo elevato, se non elevatissimo. Eppure, non riesco a fare a meno di pensare che sia proprio la costante voglia di novità a smuovere l'utenza e che, almeno in questo, le App di giochi siano avvantaggiate.
Prendiamo il caso Pokémon Go (analizzato al momento del lancio in quest'altro topic: http://imondiinpiu.blogspot.it/2016/07/pokemon-go-tra-critiche-e-complimenti.html ): pur potendo vantare un sistema che sfrutta appieno le reali potenzialità “portable” dello smartphone – caso non unico, ma quasi, nella vasta offerta dei vari Store – il suo successo è in netto calo, negli ultimi tempi. Un bilanciamento fisiologico, dovuto alla scrematura iniziale tra i gamer appassionati e quelli più casual non catturati nella rete del gioco (o meglio, nella pokéball), ma che vede anche il manifestarsi di un problema più strutturale, un problema che alla lunga produrrà il suo definitivo abbandono, se non verrà effettuato un cambio di rotta: la mancanza di varietà. Nessuna novità sensibile, infatti, è ancora stata introdotta e l'intera esperienza ludica si restringe a una sorta di simpatico collezionismo e qualche sporadica (e poco varia) battaglia contro “halo” dei pokémon avversari. Va bene, Pokémon Go è passabile di miglioramenti e sicuramente in futuro ve ne saranno, ma per ora proprio questa staticità, questa mancanza di rinnovamento e di aggiunte, in realtà tipiche nel mercato delle App dei giochi, mi pare il problema essenziale del prodotto in questione.
Un discorso analogo, secondo me, lo si può fare per gran parte dei software di intrattenimento presenti sul mercato, ad eccezione forse soltanto di quelli che fanno della ripetitività lo scheletro della loro esperienza (salvo poi aggiungere comunque livelli e piccolezze, come in molti puzzlegames).
Una riflessione come un'altra, che spero vi porti a guardare l'argomento da una nuova prospettiva. Voi che ne pensate?


lunedì 5 settembre 2016

Il Sorriso

Bello,
bello come il mondo può essere un sorriso,
come un peso sull'anima che sparisce,
come la frescura dell'acqua sul sudore,
come l'ultimo abbraccio di un morente,
come l'idea che hai del tramonto.
Bello,
bello, bello, bello come una canzone,
bello da gridare la propria felicità,
bello come l'attesa di un bambino alle giostre,
come la fine di un finanziamento,
come una bolletta che non devi pagare.
Bello,
bello e straordinario; bello, unico e immediato,
come ciò che è gratis e ciò che scalda senza bruciare.

Quel tuo sorriso è come ciò che è bello,
solo... un po' più bello.

venerdì 2 settembre 2016

BlogScreen: Suicide Squad




Ho visto questo film da un po' e vi porto la recensione con colpevole ritardo, ma di tutto e di più è già stato detto: chi lo odia, chi lo salva al pelo, chi lo adora. Onestamente, io non saprei bene dove posizionarmi, ma condivido le obiezioni e i pregi riconosciuti finora.
È un film che dura abbastanza, sulle due ore, ma non ci si accorge dell'effettiva lunghezza; non tutto il film, però, mantiene alto il livello di interesse nello spettatore.
È pieno di assurdità e più di qualche punto debole, ma in fondo stiamo parlando di una storia adattata dai fumetti e trasmessa al cinema per l'idea alla base, molto interessante (un team di soli cattivi? Sulla carta è valida, non fosse che poi non si riesce a giustificarne la necessità senza scadere nella banalità...).
Ci sono buone recitazioni, affiancate da alcune non proprio eccelse ed altre sopravvalutate: Will Smith, giusto per fare un esempio, a mio parere salva e arricchisce un personaggio altrimenti insipido come Deadshot, mentre Margot Robbie, che pure dimostra talento, calca un po' troppo la mano sulla caratterizzazione del suo personaggio e finisce per renderlo poco appetibile (e qui, uno stuolo di fan di lei e di Harley Quinn – e soprattutto di lei nei panni di Harley Quinn – mi falcidierà: migliora le cose aggiungere che l'ho trovata perfetta nelle scene dedicate ai flashback?). Jared Leto, da questo punto di vista, centra meglio il bersaglio, benché sia aiutato da un numero di minuti su schermo complessivamente inferiori a quelli dell'attrice, cosa che gli impedisce di stufare lo spettatore. I personaggi, però, servono a poco, nel contesto creato: solo un paio di loro hanno “veri” superpoteri e solo uno può fare realmente la differenza contro il cattivone di turno. Gli altri finiscono inevitabilmente per colorare lo schermo con le loro psichedeliche personalità.

Il problema di fondo, infatti, non sono tanto gli attori, quanto i ruoli interpretati e le frasi che vengono messe loro in bocca. Non che la recente ondata di film supereroistici abbia offerto finora dialoghi degni di un dramma Shakespeariano, ma non ricordo di aver mai sentito un tale numero di banalità, controsensi pregni di moralità spicciola e gag “mache” tutte in una volta.
La storia, di per sé, parte da premesse interessanti: una banda di cattivi obbligata a servire il governo, allestita allo scopo di affrontare missioni non alla portata delle forze armate e, per questo, probabilmente suicide (da cui il titolo, immagino)... e qui sorge il primo problema: se la domanda è “Come fermiamo un ipotetico Superman cattivo?”, la risposta non può certo essere questa. Il fumetto, da quel poco che ho carpito in giro per la rete, aveva una motivazione più solida.
Il tutto è sviluppato in maniera un po' troppo lineare, senza grossi colpi di scena e nessun vero momento di pathos. L'unico picco di tensione, anzi, mi è parso anche il punto più debole della sceneggiatura: una conversazione tra i protagonisti che mette in mostra un nocciolo di bontà dietro le loro maschere violente. Un sentimento, coadiuvato da un passato doloroso, che mal si sposa col loro ruolo di grandi cattivi.

Mettiamolo in chiaro, il film mi è piaciut... piaciucchiato, diciamo. L'ho trovato interessante e, soprattutto, mi ci sono sollazzato senza troppi fastidi. Si poteva fare meglio, certo.
Ora, io non sono uno sceneggiatore e non avrei il diritto di criticare il lavoro altrui – specie se esiste un canovaccio di fondo da rispettare – ma come consumatore posso fare le mie osservazioni e chiarire che, pur non sapendo molto del fumetto originale, è normale che il pubblico odierno si aspetti qualcosa di meglio: antagonisti più carismatici, per fare un esempio (una modella che danza in modo stupido e un gigante tutto muscoli e niente cervello? Davvero?), e protagonisti pseudo-malvagi meno macchiette.
Il più grosso limite di Suicide Squad, comunque, rimane probabilmente l'incapacità di sfruttare appieno il potenziale a disposizione. L'idea, il cast, i moderni effetti speciali (già che si parla di film supereroistici, o meglio superantieroistici)... molte cose, insomma, facevano ben sperare. Ci si ritrova tra le mani un prodotto che punta tutto sul carisma dei principali componenti della squadra (e del Joker), sciorinandolo in modo piuttosto efficace per la prima metà della pellicola, finendo però col trascurare tutti quegli elementi che avrebbero potuto rendere buona anche la seconda... o quantomeno salvarla.
Un film, insomma, dalla grande personalità, che però si “suicida” proprio per la voglia di far risaltare il suo estro a scapito di tutto il resto.
Divertente da vedere, magari a casa, ma lascia un po' di amaro in bocca, specialmente a chi, come me, è felice del successo del filone supereroistico degli ultimi anni e gradirebbe vederlo sempre più alla ribalta.

Comunicazioni di servizio #1

Era da un po' che non illustravo la programmazione del blog. Che ne dite del nuovo formato per le comunicazioni di servizio? (segue un lungo silenzio per il pubblico inesistente)
Sarò brevissimo: sono previste altre due poesie per la prossima settimana, ma entro oggi farò uscire un testo ben più corposo, ovvero la (tardiva) recensione di Suicide Squad! Buona lettura!

Blaze

giovedì 1 settembre 2016

Lascia

Non salvarmi, lasciami andare;
lascia che soffra e che scopra,
lascia che il mondo mi cada addosso.
Lasciami sbucciare il ginocchio,
lasciami tirare su da solo.
Lasciami credere, lasciami sperare,
lascia che il mondo mi derida.
Lascia che vinca, lascia che perda,
lasciami trionfare fino in fondo.
Lasciami l'onanismo letterario
e lasciami l'amore solidale,
lasciami il chiedere se esiste un dopo.
Lasciami l'orgasmo tra i respiri mozzati,
lasciami lo sgomento per tutto il male,
lasciami vivere come se fossi immortale.
Lascia che il tempo faccia il suo mestiere,
lascia che ad insegnarmi sia la vita.
Lascia che faccia i miei sbagli
e lasciameli rivendicare.
E alla fine, volente o no, dovrai lasciarmi del tutto,
ma se mi avrai lasciato fare,
non mi potrai lasciare più.