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My Hero Academia – the movie: Two Heroes” (Boku no Hīrō Academia – the movie: Futari no Hīrō) è il primo film tratto dal celebre manga di Kōhei Horikoshi.
Non mi dilungherò troppo sulla serie originale da cui è tratto, perché vorrei provare a fare una recensione mirata e sintetica. Per chi non ne sa nulla ed è curioso (anche se dubito verrebbe a leggere qui), rimando a un mio successivo post in cui recensirò la serie principale – oppure a un qualunque sito informativo, tipo Wikipedia, che forse è pure più semplice e immediato.




Partiamo subito con la domanda fondamentale: mi è piaciuto? . Pistola alla testa, però, propendo più per il no che per il sì.
Come ho già detto per “TheSeven Deadly Sins – Prisoners of the Sky”, è facile che un film d’animazione tratto da un anime di successo non sia di particolare impatto, neppure per i fan della serie. Anzi, forse soprattutto per loro. Tuttavia, “MHA – Two Heroes” è fin troppo scontato riassuntivo persino per quella casistica... e soprattutto stanca non appena entra nel vivo.
Le premesse non sono neanche malaccio: un parco a tema sta per essere inaugurato su un’isola iper-tecnologica, allo scopo di presentare in modo divertente le invenzioni sviluppate dagli scienziati che abitano lì. Non si tratta di studiosi qualunque, ma di coloro che nella vita si occupano specialmente di fornire supporto agli Heroes.

Tuttavia, l’atollo di cemento e ritrovati cyber-tech viene preso di mira da un gruppo di Villain proprio durante la visita di alcuni finanziatori e del celebre eroe All Might. Assieme a lui, ovviamente, compariranno quasi tutti gli alunni del Liceo Yuei, la scuola per supereroi dove studiano i protagonisti della serie principale… e qui arriva la prima stonatura. Da un lato, un paio di personaggi comprimari tutto sommato interessanti ben caratterizzati, con tanto di flashback sul periodo giovanile del Number One Hero; dall’altro, il solito gruppetto di aspiranti eroi che si trova riunito per caso e in modo così forzato da apparire del tutto implausibile, anche per il più permissivo dei fan. Io, per intenderci, sono di bocca buona, ma pretendo che il patto narrativo sia rispettato il più possibile: se viene a mancare quel minimo di credibilità che rende coerente una storia, come faccio a non trovare la narrazione straniante? Passino le visite fortuite di due o tre amici del protagonista principale, Izuku Midorya, ma tutta la classe? Alcuni compagni, addirittura, sono lì perché stanno svolgendo un lavoretto estivo. No, dai. Implausibile.
Ovviamente, verranno tutti coinvolti nell’attacco del Villain di turno e dei suoi scagnozzi… e anche qui, deglutiamo a fatica. L’antagonista è tratteggiato in modo semplicistico, senza spessore e con un potere che più banale non si può. Insomma, risulta incapace di colpire lo spettatore in qualsivoglia modo: non lo odi, il che toglie pathos ai duelli, ma nemmeno riesci a empatizzare con lui. Al massimo, provi un po’ di fastidio per il fatto che sia qualcuno di così poco carismatico a rappresentare una minaccia. Sarà che la serie principale ci ha abituati ad altri standard, ma manca completamente d’impatto.
I suoi aiutanti, poi, sono del tutto irrilevanti (e rendono ancor meno interessanti i già poco entusiasmanti combattimenti di intermezzo).
L’animazione, quella sì, non è affatto male, e i personaggi si muovono in modo splendido e fluido anche nei momenti di massima concitazione.
Dunque, solo il lato tecnico ha qualcosa da offrire? No, non proprio. In realtà, è costruito in modo molto efficace il parallelismo tra All Might e Deku/Midorya, vero leitmotiv anche della prima parte del manga. Grazie ad esso si esalta – per via di alcune buone trovate registiche – il concetto di passaggio di consegne tra maestro e allievo, sottolineando l’ottima costruzione del personaggio principale e lo spessore della sua crescita caratteriale.
Bon, stop. Per il resto vale quanto sopra. I fan si godano questa ora e mezza abbondante di MHA consci che non ci troveranno nulla di nuovo; se l'obiettivo, invece, è quello di sbocconcellare la formula già sperimentata nella serie principale, allora buon appetito.



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Da lettore vorace di manga (fra questi, anche The Seven Deadly Sins/Nanatsu no Taizai), devo ammettere di essermi approcciato al film con il classico timore di chi sa benissimo che al 90% resterà deluso.
Ok, ok, forse sto esagerando, ma diciamo che tendenzialmente fatico ad apprezzare i corto/lungometraggi dedicati a una serie che seguo appassionatamente su un altro medium. La mia premessa è doverosa, in quanto non sono certo di poter formulare un parere del tutto oggettivo (e quando mai?).




Ora, se quanto detto sopra normalmente risulterebbe un vantaggio per un film tratto da uno shonen (poiché le basse aspettative difficilmente possono essere tradite e, per contro, la risalita è assai più rapida), nel caso specifico di “The Seven Deadly Sins – Prisoners of the Sky” devo ammettere che non è stato così, in quanto nutrivo la segreta speranza di un ritorno alle origini – una sorta di revival di quella formula semplice che mi aveva conquistato ai suoi esordi. Ahimé, anche se la semplificazione di alcuni passaggi ha indubbiamente spinto verso la riconquista di un’identità ormai quasi perduta, la banalità dell’insieme e alcune scelte decisamente poco digeribili hanno fatto sì che le mie aspettative fossero disattese e, nel complesso, ne rimanessi alquanto deluso.

Andiamo al sodo: non stiamo parlando di un bel film d’animazione, per quanto mi riguarda. Sì, tecnicamente si difende bene, dato che le animazioni risultano per lo più fluide e i disegni si avvicinano a quelli del manga in modo più marcato rispetto alle ultime puntate dell’anime (ebbene sì, ho visto anche le stagioni su Netflix, oh!); persino registicamente mi è sembrato funzionare abbastanza bene.
Cosa non torna quindi?
Innanzitutto, la sceneggiatura e il character design. Ho scoperto grazie agli intermezzi presenti sugli ultimi numeri del manga che entrambi sono stati supervisionati, quando non creati, direttamente dall’autore, Nakaba Suzuki. La storia l’ha addirittura pensata lui.

Qualche spunto interessante, infatti, c’è, ma in generale la sensazione di aver a che fare con un “filler”, un mero riempitivo del prodotto originale, è fin troppo preponderante. Per carità, è la sua natura, essendo un’aggiunta bella e buona alla trama – vale per tutti i film tratti da serie di successo, in fondo. Tuttavia, di solito si tratta di un arricchimento, un plus che resta in linea con il filone principale, senza troppe sbavature o stonature. La classica sensazione di organicità che mi sarei aspettato da un intermezzo, insomma, qui è mancata.

Troppo lento nella parte iniziale e troppo frenetico dalla metà in poi? Troppi combattimenti brevi e privi di pathos? Nemici banalotti dal design decisamente poco ispirato? Eventi e dettagli che non si allineano con quanto visto sul fumetto?
Scegliete voi.
Il mangaka (l'autore del manga, n.d.Blaze) ha ammesso di aver partecipato a questo progetto in un periodo già molto impegnativo e stancante e forse la cosa avrà contribuito.

In ogni caso, non è tutto da buttare: se è vero che si perde tempo a dare minutaggio a tutti i personaggi comprimari – sindrome assai frequente in lavori di questo stampo – dall’altro lato nessuno di loro viene snaturato; le loro scene d'azione non risultano noiose. Le citazioni per gli appassionati, poi, ci sono e un paio di idee (una su tutte, il “mostro finale”) risultano interessanti.
L’antagonista principale è l’unico character design esteticamente riuscito, tra i “Sei Cavalieri Neri”, ma non brilla per carisma. Il gruppo dei cattivi, a questo giro, poteva anche essere ridotto di numero per dare ai singoli più spazio (al massimo, se proprio vuoi far vedere tutti i Sette Peccati in azione, li dividi in gruppetti e li fai combattere due/tre contro uno, no?). La sensazione generale è che non ci sia nessuna vera sfida – quindi non si genere nessuna empatia coi personaggi – e che i 100 minuti scarsi di durata siano persino pochi. In qualche modo, però, non mancano passaggi noiosi, il che è una strana alchimia.
Per un grande fan può risultare gradevole, forse, gli altri se ne tengano lontani.

Commento extra per chi legge il manga e ha già visto il film (quindi spoiler):


Che cacchio è il colpo finale che lancia Meliodas con i poteri dei suoi compagni? Sembra la versione mal realizzata del Revenge Counter, ma senza senso e con una sfumatura arcobaleno alla Sailor Moon. Mah! Evitabile.




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Per i fan di vecchia data, la pellicola in questione è stata caratterizzata sin da principio da una forte dicotomia: da una parte c’era la nostalgia per il titolo, mentre dall'altra la convinzione che una conclusione degna (e, a costo di risultare ridondante, realmente definitivafosse già stata raggiunta col terzo capitolo.

Io sono di bocca buona, tutto sommato non mi faccio grossi problemi se un brand sforna nuovi episodi e una storia apparentemente già in pace viene rimescolata un po’ - in fondo, se il film mi piace, poco mi cale di cascare in operazioni di marketing. Ciò detto, per una volta mi tocca contraddirmi: mi sono genuinamente divertito a vedere le nuove vicende di Woody & Co., tuttavia, pur non avendo registrato particolari cali di interesse durante la proiezione, devo ammettere che questo ulteriore finale non riesce a scalzare dal podio il pathos del film precedente e, conseguentemente, non riduce di una virgola lo spessore del suo “The End”.

Insomma, Toy Story 4 è un film piacevole di cui, però, non si sentiva davvero il bisogno. Ho visto che in molti hanno voluto precisare che, sì, il terzo ha una carica emotiva superiore, ma questa conclusione è più azzeccata, perché chiude i discorsi in sospeso e chiosa il ciclo narrativo del suo protagonista, Woody. Io dissento: altri film possono benissimo nascere dai presupposti gettati una volta giunti ai titoli di coda. Non sono, quindi, convinto che si tratti dell’ultimo sforzo della Pixar verso questa saga: si potrebbe tranquillamente immaginare un piccolo spostamento di focus e le vicende dei nostri giocattoli preferiti continuerebbero a far divertire. In un certo senso, questo film ne è la dimostrazione lampante, dato il ritorno (decisamente forzato) di alcune vecchie conoscenze. Non ci sarebbe nemmeno nulla di male, tanto per essere chiari.

La trama, per dar a questa recensione la parvenza di essere composta secondo i giusti crismi, per come la vedo io è abbastanza originale e articolata: Woody soffre il fatto di non essere il giocattolo preferito della bambina a cui è stato affidato, ma lotta per garantirle il massimo del benessere durante la difficile fase di transizione da casa ad asilo. In tutto ciò, anche grazie ad alcuni espedienti narrativi interessanti (anche se non sempre innovativi), riscopre il ruolo che i “balocchi per bambini” dovrebbero avere e ottiene maggiore consapevolezza di se stesso e di ciò che desidera realmente.

Quasi un racconto di formazione, non fosse per il forte background che accompagna il protagonista (già "adulto") e la necessità di semplificare la formula narrativa della presa di coscienza.

Le avventure sono rocambolesche e spassose, le battute non eccessive (l’umorismo batte maggiormente sulla caratterizzazione dei personaggi e sulle situazioni al limite del ridicolo, cosa che poi è sempre stata la cifra stilistica della serie) e l’intreccio non privo di mordente.
In definitiva, un film riuscito, molto piacevole anche visivamente: la Pixar ha saputo migliorare le animazioni senza snaturarleConsigliato, insomma, ma non imprescindibile. Il picco lo avete visto in Toy Story 3.



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Partiamo da un presupposto: non sono un gran esperto di cinema italiano (sarebbe meglio dire “di cinema” in generale) e infatti non guardo molte pellicole nostrane, ma questo non significa che non ne abbia affatto un'idea – o che si tratti di una declinazione peggiore di quella hollywoodiana.
Per la verità, mai come in questo caso potrebbe valere il famoso motto “due pesi e due misure”: il budget delle produzioni del nostro amato stivale è certamente più basso di quasi tutti – se non proprio tutti – i film che vengono finanziati in America e che io tendo a guardare al cinema (come avrete edotto dalle altre recensioni su questo Blog).
Certo, certo, si potrebbe spendere un fiume di parole per evidenziare le differenze che passano tra le due categorie, ma più in generale diciamo che alla profonda introspezione psicologica delle nostre pellicole (non comico-demenziali, se proprio vogliamo fare una precisazione) corrisponde anche una minor vivacità delle scene e un contesto piuttosto realistico.

Lo chiamavano Jeeg Robot” rientra perfettamente in questa analisi, ma sfonda le pareti imposte dalla sua provenienza, impedendo una categorizzazione tanto schematica – un'operazione che solo un ottima pellicola può riuscire a compiere. Anzi, a conti fatti non si limita a questo, ma evidenzia come il mio stereotipare (e come me, molti altri lo fanno spesso) sia soltanto una congestione critica, un piccolo malanno analitico perfettamente guaribile.
In questo film, l'azione passa con facilità dal movimento frenetico all'attimo contemplativo e la psicologia dei personaggi è perfettamente analizzata, spesso da vicino e con la lente d'ingrandimento, senza dover per forza ricorrere a monologhi e riflessioni in sottofondo, a silenzi troppo lunghi e sovraccaricati di significati.
Questo è probabilmente il più grande merito di “Lo chiamavano Jeeg Robot”: la sua completa fruibilità, la sua accessibilità. C'è di più! Questo pregio non degenera in una limitazione: non si riduce ai minimi termini, escludendo ogni altra possibile declinazione, anzi. A voler approfondire, a volercisi immergere più a fondo, è possibile scorgere i connotati più reconditi dei personaggi e procedere a diversi livelli di lettura.
No, no, non è un film pesante – a chi, come me, tende a preferire pellicole che non implichino uno sforzo di tipo intellettuale o riflessivo.
No, no, non è un film d'azione nel senso stretto del termine – a chi si fosse fatto l'idea sbagliata.
No, no, ancora una volta: non è neppure un film d'ispirazione giapponese, a chi fosse stato tratto in fallo dal titolo. Beh, l'impronta fumettistica (forse più “comics” che “manga”) è particolarmente evidente, ma confinata comunque entro i limiti e gli scopi della sceneggiatura – per altro abbastanza buona.

Non saprei dire chi sia più capace tra gli attori principali, tutti ottimi (anche se Ilenia Pastorelli spicca nel suo ruolo), né ho critiche particolari verso la regia. Trovo semplicemente che cast, operatori e direttori procedano in un perfetto equilibrio verso il confezionamento dell'opera e che l'amalgama delle singole parti restituisca una sensazione di completezza e ottima resa finale.

La trama, che rimane interessante e originale se si pensa al contesto nostrano, è piuttosto semplice: un criminale di bassa lega, che si appoggia a una risma di individui più pericolosi di lui – ma comunque facenti parte della bassa marmaglia della “peggio Roma” – durante una fuga rocambolesca finisce per entrare in contatto con una non meglio precisata sostanza radioattiva. Non viene fornita alcuna spiegazione circa la presenza di questo elemento nel film, e la cosa è voluta: il rifiuto chimico è infatti solo il pretesto per avviare la macchina narrativa e non ha una reale importanza nella storia (salvo tornare sul finale), se non per giustificare ciò che accade al protagonista. Enzo Ceccotti, l'atipico eroe della vicenda, ottiene infatti dei superpoteri.
Deciso a sfruttare i suoi nuovi doni (forza e resistenza inumane, oltre a una rigenerazione di ispirazione wolveriniana), opta per una via legata a doppia mandata alla sua vita da criminale, se non fosse che...
Beh, senza andare sul banale e lo scontato, il pretesto per il cambiamento interiore e morale del protagonista avviene ovviamente grazie a una donna, la co-protagonista Alessia, che si delinea sin da subito come il personaggio più singolare della pellicola e che ha una chiara ossessione (nel senso clinico del termine) per l'opera di Tatsuya Yasuda e Gō Nagai, il “Jeeg robot d'acciaio” che dà il titolo al film stesso.
In un contesto ispirato ai fumetti, non può mancare un antagonista sopra le righe... e infatti c'è: lo “Zingaro”, un criminale che con certi suoi vezzi e scatti d'ira ricorda una sorta di “Joker” Batmaniano. Ok, adesso la finisco con questi aggettivi “su licenza”.

Il punto è che il tutto viene presentato in modo non solo credibile e realistico (con l'ovvia sospensione dell'incredulità), ma anche vicino al nostro mondo quotidiano – almeno, a quello risultante dalla cronaca giornaliera (nera o meno). Non appare quindi strano che l'eroe venga idolatrato da graffitari vari e dal popolo di YouTube, nonostante la sua scorrettezza, o che i suoi nemici siano coinvolti in loschi affari con note organizzazioni malavitose, oppure ancora che una partita di calcio, una ruota panoramica o persino un centro commerciale possano divenire l'ambientazione perfetta per il consumarsi di azioni inumane o, ancora, tenerissime.

“Lo chiamavano Jeeg Robot” rappresenta un esperimento riuscito che merita certamente una visione anche da parte del più scettico spettatore nostrano, lo stesso che magari non si aspetta altro, dal cinema italiano, che l'ennesimo cinepanettone.



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Chi ha visto “Alla ricerca di Nemo”? Tutti? Bene, perché senza il primo della saga, “Alla ricerca di Dory” può essere goduto solo a metà.
No, va bene, ho esagerato: guardare il secondo da solo è possibilissimo, ma decisamente sconsigliabile data la mole di riferimenti e il background (per quel che serve) dei personaggi.
Detto questo, quello che abbiamo di fronte non è certo un capolavoro, ma rimane un buon film.
L'azione ben dosata, le battute abbastanza divertenti (e, per fortuna, non esaurite nei vari trailer) e l'ambientazione marina conferiscono al titolo la stessa verve del suo avo – perché ormai sono passati tredici anni – senza però snaturare troppo l'idea alla base della serie. Ma poi, con solo due film si potrà parlare di serie?

Certo, essendo un lungometraggio animato, molti elementi che normalmente farebbero storcere il naso godono in questo caso di un salvacondotto speciale che permette loro di passare inosservati. Azioni al limite del rocambolesco, sopra le righe, persino contro la logica (e la fisica) diventano perfettamente accettabili, ammantate nel dolce abbraccio di una doppia sospensione dell'incredulità: quella premessa all'ambientazione stessa e una posta più a monte, in qualità di opera digitale destinata a un pubblico giovane.
Questo però non significa che certe scene non appaiano del tutto assurde (qualunque riferimento a una certa sequenza sul finale del film è puramente casuale...), persino agli occhi di chi ha già accettato di trovarsi di fronte a un'opera tra le più frivole (e ben realizzate) della Disney.

Sul lato tecnico posso dire ben poco, non essendo un esperto: i modelli dei vari personaggi e degli ambienti sono resi ottimamente, come sempre, e catturano completamente lo spettatore. Certi scenari, poi, sono un tripudio di colori e dettagli. Anche regia e sceneggiatura reggono benissimo il confronto col vecchio capitolo, riuscendo a proporre una storia dai presupposti già visti in una salsa abbastanza nuova.
La morale di fondo rivisita ancora una volta le dinamiche parentali, ma si tratta solo di un pretesto per “sprofondare” in altre disamine: in particolare, spiccano il bisogno di comprensione verso i meno fortunati e il superamento dei propri limiti naturali o auto-imposti.

Unica pecca veramente negativa, al di là dello schema narrativo ridondante e della leggerezza dei contenuti (ma poi, si può parlare davvero di negatività, qui?), è forse la mancanza di una colonna sonora capace di emozionare come il precedente capitolo. A me, quantomeno, è rimasto in testa solo il theme del vecchio “Finding Nemo”, ri-arrangiato per l'occasione.
personaggi secondari, occorre specificarlo, risultano meno affascinanti delle comparse che animavano la trama del primo capitolo, eppure conservano una loro personalità e risultano comunque comici. Nulla di eccezionale (di certo non sono il trio degli squali o i pesci dell'acquario che avevano accompagnato Marlin e Nemo precedentemente), ma al “senza lode” va premesso il “senza infamia”.


In definitiva, ci troviamo di fronte a un sequel ottimamente confezionato, fruibile da grandi e piccini quasi allo stesso modo – come tipico dei prodotti targati Disney – e capace di restituire, oltre a qualche risata, un po' del fascino di quel mare digitale che tredici anni or sono ci aveva rapiti.


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Allora, per prima cosa lasciatemi chiarire un punto fondamentale: il primo Independence Day è uno dei film che ho visto più volte in vita mia, vuoi perché lo davano spesso in tv e avevo finito per registrarlo su VHS, vuoi perché me lo sono ritrovato poi in casa in tutte le sue reincarnazioni (dvd, digitale e blu-ray). Ora, onestamente, è difficile essere obiettivi nel prendere in esame qualcosa che si è amato, in un modo o nell'altro, ma cercherò comunque di non farmi influenzare. Perciò credetemi se vi dico che questo sequel (in ritardo di venti anni, quasi se ne sentisse l'esigenza) è piuttosto scadente, persino bruttino. Andiamo con ordine.

La trama è semplice, come lo fu per il primo capitolo: gli alieni cattivi sono tornati e la Terra si trova impreparata nell'affrontare la minaccia. Sta a pochi eroi – vecchi e nuovi – togliere le proverbiali castagne dal fuoco.
Il film precedente fece un certo scalpore, quando uscì nelle sale: mettendo in scena un giovane Will Smith, presentava una storia scontata, dai presupposti stereotipati e diverse assurdità nella sceneggiatura (coff coff – sconfiggere un'avanzatissima civiltà con un banale virus per computer – coff coff), ma il tutto era condito da una massiccia presenza di effetti speciali ottimamente realizzati (almeno per il tempo) e risultava godibile nell'insieme. Un film un po' sopra le righe, ma a cui non è stato difficile affezionarsi.
Ora, è chiaro che da questo seguito ci si aspettavano due cose, entrambe – devo ammettere – effettivamente presenti: che gli effetti speciali e l'uso della più moderna computer grafica fossero ai massimi standard e che il film rimanesse leggero e un po' esagerato.
Cosa non torna allora? Beh, quasi tutto il resto.

Va bene prendere una sceneggiatura leggera e non particolarmente pretenziosa, ma un minimo di credibilità devi comunque mantenerla, o la famosa sospensione dell'incredulità va a farsi benedire.
Le coincidenze si sprecano, con personaggi che arrivano a incontrarsi e unirsi nella lotta nei modi più assurdi e forzati che io abbia mai visto. Si sprecano anche le idiozie: se già il primo aveva fatto sollevare qualche sopracciglia per i metodi di distruzione di massa utilizzati dagli alieni (i cui danni sul pianeta avrebbero dovuto comportare terribili cambiamenti climatici e non solo), questo secondo tentativo vi lascerà del tutto increduli, più che stupiti, e per i motivi sbagliati.
Lo so, lo so, una recensione deve cercare di essere “free spoilers”, e non intendo venir meno a questa regola, ma alcune scene venivano presentate direttamente nel trailer e fanno da sfondo alla vicenda sin dalle sue premesse, quindi vado sul sicuro nel dirvi che non ha assolutamente senso vedere una navicella spaziale grande quanto un quarto della Terra posarsi sopra di essa senza, che ne so, cambiarne l'asse o la rotazione e devastarne l'intero ecosistema. Tanto più che l'obiettivo dichiarato degli alieni è proprio questo. E potrei continuare: il gigantesco raggio laser, grande dieci volte quelli dello scorso film, ha il solo scopo di raggiungere il centro della Terra e annullarne così i campi magnetici, eliminando l'intera atmosfera e uccidendo tutto ciò che vi è di vivo. Vogliamo parlare di quanto anche solo l'idea sia sbagliata? Pensano veramente che quella sia l'unica conseguenza? E davvero gli tsunami provocati da questa operazione possono lasciar in vita qualcosa (e soprattutto “qualcuno”, non dico chi)? E l'acqua che poi continuerebbe a defluire nel cratere?
Mettersi a fare l'analisi a raggi x al film è inutile, quasi ogni elemento presentato su schermo pare insensato o fuori posto (come l'assemblea di tutti i paesi del mondo, un simil-ONU, che però vede il solo Presidente degli Stati Uniti d'America decidere effettivamente come, quanto e quando difendersi dalla minaccia interplanetaria).
I dettagli potevano essere curati di più. Beh, va bene: ANCHE i dettagli. Però, voglio dire, pure loro fanno una bella differenza, no? Sembra una sciocchezza, ma se mi dici, anche molto sagacemente, che l'astronave madre degli alieni ha un suo campo gravitazionale (e come non potrebbe, date le dimensioni?), poi non puoi ignorare tutto il resto e farmi andare un'automobile per le strade alluvionate di una città con la marmitta infilata, in certe inquadrature, evidentemente sotto il livello dell'acqua. Ma poi, fosse solo quello. Davvero, non posso stare qui a elencare tutte le cose che non tornano o non hanno senso, faremmo notte.
Ah, sì, sì, è un film molto rocambolesco, pieno di azione, ma la tensione per ciò che sta accadendo o ciò che potrebbe avvenire, onestamente, non la si avverte mai. Così come non si sente un feeling emotivo verso i protagonisti, o le vittime. Tutto sembra accadere in modo inevitabile, quasi meccanico, senza colpi di scena o picchi di pathos. Piatto, nonostante la massiccia dose di voli in astronave, bombardamenti, fuochi di copertura, corse al limite del tempo e morti.

Gli attori sono un'altra nota dolente. Alcuni hanno delle battute oscene, del tutto fuori posto e, onestamente, fuori contesto (una su tutte, un dialogo tra uno dei protagonisti e una comparsa agli ultimi istanti di vita che sembra uno spezzone di un Late Show). Altri, semplicemente, non sanno far bene neppure con ciò che di accettabile si fornisce loro. Persino Jeff Goldblum (David, nel film), Judd Hirsch (suo padre) e Bill Pullman (il Presidente degli USA nella prima pellicola) – i pezzi da novanta di questo sforzo cinematografico (per gli spettatori, mica per altri) – non convincono del tutto, nonostante l'esperienza. Forse si possono salvare i giovani Liam Hemsworth (il fratellino di “Thor”), Jessie Usher (nei panni del miglior pilota di caccia del mondo, come fu per il personaggio di Will Smith nel precedente film) e Maika Monroe (la figlia dell'ex-Presidente), che pur non eccellendo riescono comunque a dar un minimo di spessore a personaggi privi di un forte background, o che nello scorso film avevano funto magari solamente da comparse. Bisogna ammettere, poi, che tutti risentono della povertà dei ruoli che devono impersonare.

Qualcosa di apprezzabile c'è: i molti cameo e la ricomparsa dei vecchi attori fanno sorridere, anche quando sono del tutto senza senso o poco credibili. Il comparto grafico è eccellente. Temo non basti, però.
Nessuna idea originale, mancanza di mordente, una sceneggiatura piena di buchi e l'azione spesso fine a se stessa e poco interessante – oltre che una colonna sonora abbastanza anonima, non fosse che per il vecchio theme – consegnano un prodotto finale che lo spettatore più nostalgico dovrà vedere, solo per poi scuotere la testa al ricordo della vecchia fatica di Roland Emmerich.
E dire che qualche candidatura a qualche premio il film l'ha già ricevuta. Bah.
Era meglio lasciare i morti dove stavano: per me, questa “resurrezione” faceva meglio a non avvenire.




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Ho visto questo film da un po' e vi porto la recensione con colpevole ritardo, ma di tutto e di più è già stato detto: chi lo odia, chi lo salva al pelo, chi lo adora. Onestamente, io non saprei bene dove posizionarmi, ma condivido le obiezioni e i pregi riconosciuti finora.
È un film che dura abbastanza, sulle due ore, ma non ci si accorge dell'effettiva lunghezza; non tutto il film, però, mantiene alto il livello di interesse nello spettatore.
È pieno di assurdità e più di qualche punto debole, ma in fondo stiamo parlando di una storia adattata dai fumetti e trasmessa al cinema per l'idea alla base, molto interessante (un team di soli cattivi? Sulla carta è valida, non fosse che poi non si riesce a giustificarne la necessità senza scadere nella banalità...).
Ci sono buone recitazioni, affiancate da alcune non proprio eccelse ed altre sopravvalutate: Will Smith, giusto per fare un esempio, a mio parere salva e arricchisce un personaggio altrimenti insipido come Deadshot, mentre Margot Robbie, che pure dimostra talento, calca un po' troppo la mano sulla caratterizzazione del suo personaggio e finisce per renderlo poco appetibile (e qui, uno stuolo di fan di lei e di Harley Quinn – e soprattutto di lei nei panni di Harley Quinn – mi falcidierà: migliora le cose aggiungere che l'ho trovata perfetta nelle scene dedicate ai flashback?). Jared Leto, da questo punto di vista, centra meglio il bersaglio, benché sia aiutato da un numero di minuti su schermo complessivamente inferiori a quelli dell'attrice, cosa che gli impedisce di stufare lo spettatore. I personaggi, però, servono a poco, nel contesto creato: solo un paio di loro hanno “veri” superpoteri e solo uno può fare realmente la differenza contro il cattivone di turno. Gli altri finiscono inevitabilmente per colorare lo schermo con le loro psichedeliche personalità.

Il problema di fondo, infatti, non sono tanto gli attori, quanto i ruoli interpretati e le frasi che vengono messe loro in bocca. Non che la recente ondata di film supereroistici abbia offerto finora dialoghi degni di un dramma Shakespeariano, ma non ricordo di aver mai sentito un tale numero di banalità, controsensi pregni di moralità spicciola e gag “mache” tutte in una volta.
La storia, di per sé, parte da premesse interessanti: una banda di cattivi obbligata a servire il governo, allestita allo scopo di affrontare missioni non alla portata delle forze armate e, per questo, probabilmente suicide (da cui il titolo, immagino)... e qui sorge il primo problema: se la domanda è “Come fermiamo un ipotetico Superman cattivo?”, la risposta non può certo essere questa. Il fumetto, da quel poco che ho carpito in giro per la rete, aveva una motivazione più solida.
Il tutto è sviluppato in maniera un po' troppo lineare, senza grossi colpi di scena e nessun vero momento di pathos. L'unico picco di tensione, anzi, mi è parso anche il punto più debole della sceneggiatura: una conversazione tra i protagonisti che mette in mostra un nocciolo di bontà dietro le loro maschere violente. Un sentimento, coadiuvato da un passato doloroso, che mal si sposa col loro ruolo di grandi cattivi.

Mettiamolo in chiaro, il film mi è piaciut... piaciucchiato, diciamo. L'ho trovato interessante e, soprattutto, mi ci sono sollazzato senza troppi fastidi. Si poteva fare meglio, certo.
Ora, io non sono uno sceneggiatore e non avrei il diritto di criticare il lavoro altrui – specie se esiste un canovaccio di fondo da rispettare – ma come consumatore posso fare le mie osservazioni e chiarire che, pur non sapendo molto del fumetto originale, è normale che il pubblico odierno si aspetti qualcosa di meglio: antagonisti più carismatici, per fare un esempio (una modella che danza in modo stupido e un gigante tutto muscoli e niente cervello? Davvero?), e protagonisti pseudo-malvagi meno macchiette.
Il più grosso limite di Suicide Squad, comunque, rimane probabilmente l'incapacità di sfruttare appieno il potenziale a disposizione. L'ideail casti moderni effetti speciali (già che si parla di film supereroistici, o meglio superantieroistici)... molte cose, insomma, facevano ben sperare. Ci si ritrova tra le mani un prodotto che punta tutto sul carisma dei principali componenti della squadra (e del Joker), sciorinandolo in modo piuttosto efficace per la prima metà della pellicola, finendo però col trascurare tutti quegli elementi che avrebbero potuto rendere buona anche la seconda... o quantomeno salvarla.
Un film, insomma, dalla grande personalità, che però si “suicida” proprio per la voglia di far risaltare il suo estro a scapito di tutto il resto.

Divertente da vedere, magari a casa, ma lascia un po' di amaro in bocca, specialmente a chi, come me, è felice del successo del filone supereroistico degli ultimi anni e gradirebbe vederlo sempre più alla ribalta.



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[Scusate la premessa, ma prima di parlare del film sono costretto a criticare la traduzione del titolo. Lo so, lo so: c'è così tanto da dire riguardo al modo – tutto nostrano – di cambiare il nome delle pellicole al cinema che ormai se ne potrebbe fare uno sport; e ri-lo so, dietro ci sono strategie di pubblicità e marketing per rendere il prodotto più accessibile e identificabile dalla massa dei consumatori... però, per le bobine di Hitchcock, mi spiegate perché è tanto necessario togliere una parola inglese per poi ficcarcene comunque altre due, seguite da un sottotitolo italiano? E ri-ri-lo so che “Paradise Beach” chiunque riesce a tradurlo, mentre “The Shallows” probabilmente non fa emergere alcun ricordo scolastico, né fa scattare assonanze, cosicché ti tocca cercartelo su un dizionario (a proposito, in un simile contesto, il mio dice che si tratta del termine per “acque poco profonde”, il che ha perfettamente senso), ma accidenti alla cinepresa di Spielberg! Perché cavolo sostituisci l'inglese con l'inglese, se tanto poi ci devi mettere un sottotitolo come “Dentro l'incubo”?
Non si poteva, come poi si fa di solito in questi casi, lasciare il titolo originale e legare a quello la nostra “poetica” evocazione? Non erano abbastanza esplicite le locandine con la spiaggia in lontananza, il mare caraibico, lo squalo sul fondale e la bella Blake Lively che surfa poco sopra?
Vabbé, chiudo qui questo discorso e mi concentro sulla recensione vera e propria...]




Che dire? Le premesse del film erano piuttosto chiare sin dal trailer, non mi aspettavo chissà cosa... e forse, visto con questo spirito, il film raggiunge pienamente il suo scopo. Non ha la pretesa di porsi a paragone coi grandi colossal che lo hanno preceduto nel trattare il medesimo argomento; nessun confronto, quindi, o almeno nessun guanto di sfida allo “Squalo” o ai suoi sequel, magari giusto un tentativo di svecchiamento rispetto al glorioso passato e una presa di distanza dalle malecopie che hanno affastellato il cinema negli ultimi tempi. Stop. Per il resto, ciò che si percepisce è un puro intento ricreativo. Ora, io non so se dietro al semplice intrattenimento, il regista Jaume Collet-Serra e lo sceneggiatore Anthony Jaswinski avessero pensato di nascondere una qualche morale di fondo, una magari sull'importanza del rispetto della vita e il bisogno di lottare, ma non lo credo. Sì, magari ci sono due o tre riferimenti alla catastrofe portata dall'uomo in luoghi incontaminati, o al fatto che arrendersi equivale a lasciar morire il proprio vero io e le proprie naturali inclinazioni. È persino chiaro l'intento, un po' forzoso, di inspessire la trama di un significato più profondo, quello di un viaggio verso la scoperta di se stessi e della propria forza interiore... tuttavia, l'intento primario rimane preponderante: divertire, alzare la tensione, regalare un po' di emozioni forti a buon prezzo e, perché no?, strappare qualche sorriso nel vedere la protagonista trovare il coraggio per affrontare la sua (improvvisa) nemesi.

La trama è particolarmente lineare, fuori e dentro il sottotesto: una ragazza in cerca di una risposta su cosa fare della propria vita abbandona gli studi di medicina dopo la morte della propria madre, avvenuta a causa di un brutto male. Rivisitando i posti in cui quest'ultima era stata durante la sua gravidanza, ritrova la spiaggia spesso vista nelle foto di casa: un luogo splendido e disabitato dove lei era solita fare surf. Guarda caso, anche alla protagonista piace farlo. Rimasta sola in quel mare, prima di poter tornare a riva a riposarsi, la ragazza viene attaccata da un enorme squalo ed è costretta a rifugiarsi su alcuni faraglioni – o scogli, non è dato saperlo – in attesa di qualche soccorso. Solo che, come detto, si tratta di un luogo sconosciuto ai più... e via con la classica lotta per la sopravvivenza!

Apprezzabile la ridotta presenza di jump scare, spesso abusati in questo genere di film, a favore di una ben più proficua tensione narrativa, così come la recitazione della protagonista e la fotografia (anche se, visto il paesaggio prescelto, credo sarebbe stato davvero impensabile sbagliare proprio quest'ultima). Buona anche la regia e intrigante quanto basta la storia, nonostante qualche banalità e più di una situazione al limite del credibile. Il tutto, comunque, è compresso in un tempo accettabile: la durata del film, infatti, arriva a malapena all'ora e mezza.

Insomma, sarò onesto: sono andato a vedere The Shallows aspettandomi una cagata pazzesca e, nel suo essere comunque un prodotto sopra le righe, alla fine sono stato piacevolmente accontentato. Potrebbe valere la sua visione al cinema per la buona dose di effetti speciali usati per rendere credibile lo squalo (davvero ben fatto) e per il clima buio e silenzioso della sala, particolarmente adatto alla pellicola... ma da qui a consigliare il biglietto ne passa di acqua sotto la tavola da surf!


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Oh, ehi! Dico a te, che mi stai leggendo, fermati un secondo! Ci sei? Mi ascolti?
Dico, mi ascolti? Andiamo, brutto coglione!
Ooooh, finalmente! Eccoti qua!

Dunque, scusa per prima, ma dovevo attirare la tua attenzione. Dunque, è un cavolo di piacere conoscerti, sul serio, ma in realtà non ho molto tempo per scriverti. Già, perché sono rimasto incastrato in un bel casino e non è che abbia tutte queste ore per spiegarmi. Sturati le orecchie, dunque, e preparati, perché quello che ti dirò sarà difficile da digerire: sto per raccontarti come stanno le cose veramente e tu devi fare lo sforzo più grande che ti sarà mai chiesto in vita. Credermi.

Mi chiamo Dean Winchester e sono un Cacciatore. Cosa caccio? Beh, di sicuro non il genere di prede che potresti pensare – anche se ogni tanto mi è capitato di avere a che fare con una bestia o due, piuttosta pelosa e decisamente puzzolente.
Il mio campo di investigazione è il soprannaturale e, per quanto possa sembrare assurdo, non ti sto mentendo. Sul serio, ripeti con me: «Io non ti sto mentendo».
No, idiota, tu devi cambiare il soggetto! Sono io che non mento, non me ne frega nulla di quello che dici tu.
Ops.




Se vi capiterà mai di vedere la nostra serie tv (esatto, abbiamo una serie tv! Voi?), questa canzone vi diverrà presto molto familiare. Beh, più di quanto non lo sia già!


Va bene, va bene, scusa, sono stato scortese... è che non è proprio un bel momento questo, per me. Sono rimasto incastrato nel web, per giunta impresso nel font meno accattivante della storia, quindi fammi il favore e sii elastico. Cerchiamo un punto di contatto: ti piacciono gli AC/DC? Sì? No? Non sarai mica una checca isterica come il mio fratellino Sam, vero?
Cavernicolo a me? Come osi? È stato Sam a dirti di dirmelo, idiota?

...oooh, io parlo come mi pare e piace! Non sono andato a Oxford e nemmeno voglio rimediare! Ho visto e fatto cose che tu e i tuoi amici potete solo fantasticare, quindi zitto e impara!
Caccia a lupi mannari! Sì, lupi mannari! Ed esorcismi a demoni e fantasmi! Duelli all'ultimo sangue con mutaforma, bestie antropomorfe, divinità pagane, streghe e maghi di ogni genere e persino sciami di insetti assassini. Esatto, hai capito bene, insetti assassini: perché? Nella tua preziosa enciclopedia di fiducia questa specie non ti torna?
Ah, ti torna.
Vabbé, me ne frego se non ti sembro del tutto a posto, figlio di... no, no, ehi! Aspetta! Dove vai? Buono, buono, non cliccare sulla crocetta rossa, non ridurre a icona, non tornare indietro con le pagine. Lascia perdere Facebook, questo è più importante di Facebook.
Ti piacciono le macchine? Io adoro le macchine, in particolare la mia Impala del '67. A te? Parliamo di questo, di donne e motori?
E invece no, magari. Devi ascoltarmi, ho troppe cose da dirti e tu continui a fare la fighetta e a scaldarti. Sono un agente del FBI, sai? A volte, almeno. Sì, beh, non proprio, naturalmente, ma ho delle patacche da poliziotto niente male e so due o tre cose che neanche Mulder e Scully riuscirebbero ad archiviare tra i loro X-Files.
Ascoltami, quindi: è vero che vado a caccia di creature soprannaturali, ma non sono quel mascalzone psicopatico come avrai sentito dire in giro. La gente non capisce...
Sì, lo so che “così dicono i pazzi”, ma stavolta intendo sul serio. La gente non capisce: c'è molto di più, nel mondo, molte più creature, razze e maledizioni di quante se ne possano immaginare. Il male serpeggia per le città sotto le forme più svariate e spesso è difficile da individuare, da debellare prima che distrugga la vita a qualcuno.
Qua entro in gioco io. Va bene, io e il mio fratellino: con un aiutino sporadico da parte di qualche altro cacciatore, solitamente mettiamo le cose a posto prima che qualcuno si faccia davvero male. Beh, ecco, a volte un po' dopo, ma aiutiamo un sacco di gente a vivere una vita tranquilla e perfetta a scapito della nostra. Cosa intendo dire? Beh, prova tu a viaggiare di stato in stato per gli USA, cambiando identità ogni singola volta, fermandoti solo nei motel per dormire, mangiando qua e là per i fast food di ogni singola contea e lottando contro ciò che la gente comune considera solo fantasia!


Ok, te lo concedo, detto così può sembrare una figata – e in effetti è un'avventura pazzesca – ma ci sono anche ombre, dietro le luci del brivido e del nostro nomadismo. Nessuna stabilità, vivere con Sam, l'impossibilità di creare un legame, vivere con Sam, rischiare di venire uccisi una volta a settimana se ci dice bene... e ho già detto vivere con Sam?
Quindi, cosa voglio da te? Beh, semplice: non so se sia stata una maledizione o l'incanto di una stronza fattucchiera, ma la mia coscienza è finita rinchiusa qua dentro. Sì, esatto, in questo ridicolo spazio multimediale. Ho bisogno di aiuto, devi chiamare una persona per me.

Hai presente quel Sam di cui ti ho parlato?


(Ho copia incollato il messaggio per voi: se sapete come dargli una mano, scrivete pure qua sotto! -Blaze)


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Benché sia sempre più conosciuta anche in Italia, la serie britannica "Doctor Who" vanta un minor seguito nel Bel Paese rispetto a quello concesso ad altri telefilm in lingua inglese. Eppure, come prima serie televisiva di questo spazio telematico, ho scelto di parlarvi di lei anziché di un'altra per due motivi: è la più longeva tra quelle di genere fantascientifico e... sono il Dottore.
Cos'è il Dottore? No, no, domanda sbagliata! Sbagliatissima!
Ad ogni modo, questa storia parla di un alieno, un cosiddetto "Signore del Tempo" dal pianeta Gallifrey.
Signore-del-tempo... perché una razza aliena dovrebbe avere un nome simile? Semplice! Perché adora mangiare bastoncini di pesce con la crema pasticc-no no! Scusate, quello sono io. No, il motivo è semplice davvero in realtà: perché viaggia nel tempo (e nello spazio, ma evidentemente la cosa è passata in secondo piano al momento di decidere il nick) grazie a una cabina telefonica di colore blu. Esatto, una di quelle vecchie cabine inglesi che forse avrete visto in qualche film, una volta. Ah, ma naturalmente non preoccupatevi, non si tratta certo di una vera cabina! Anzi, tutt'altro, è un'astronave, il TARDIS! Ed è anche più grande all'interno (guai a chi dice che sembra "più piccolo all'esterno")!
Ecco, scusate, ho divagato. Divago sempre. Fa bene divagare, anche se voi lo scoprirete soltanto fra molto, molto tempo. Tipo... mmh... molto, molto tempo!
Ah-ehm! Torniamo a noi.
Abbiamo un alieno dalle sembianze umane, ma con due cuori. Una nave spaziale in grado di viaggiare attraverso lo spazio e il tempo. Cos'altro manca? Beh, un "cacciavite sonico", l'aggeggio che il protagonista porta sempre con sé e che fa, tipo, tutto. Analizza, smuove, attiva, disattiva (la gente si scorda sempre della funzione "disattiva") e molto, molto altro. Però non è un'arma! Assolutamente: si tratta di uno strumento scientifico, per giunta con alcune limitazioni (ad esempio, quando si scende sul piano biologico il meglio che riesca a fare è scansionare).
Date queste premesse, si può salvare l'universo. Già, perché è esattamente questo quello che succede nelle puntate di "Doctor Who": il Dottore, aiutato da diversi compagni a seconda della stagione (già 8, al momento dello scritto. Le stagioni, non i compagni) si scontra e confronta con problemi planetari, interplanetari, galattici, intergalattici, universali e addirittura interuniversali. Il tutto, naturalmente, a spasso nel tempo e farcito con molte altre razze aliene.
Certo, me ne rendo conto, alcuni "effetti speciali" utilizzati per raccontarvi le mie avventure possono sembrare sottotono rispetto ad altre produzioni vostrane (avete già inventato il termine vostrano?), così come diversi nemici - fra tutti la nemesi del protagonista per eccellenza, i Dalek - possono apparire superati nel design e nella caratterizzazione psicologica, ma... beh! Come vi ho detto è la serie fantascientifica più longeva di sempre! Per quanto si possa svecchiare, alcuni fondamentali devono rimanere invariati. Inoltre, i Dalek sono davvero fatti così, quindi niente storie.
Ad ogni modo, non preoccupatevi, non vi annoierete di certo: le singole puntate sono elettrizzanti, spesso al fulmicotone e sparsi qua e là, costellati lungo tutta la serie, vengono elargiti indizi su quelli che possiamo considerare alcuni dei finali di stagione più sconvolgenti di sempre. Nessuna monotonia! Tutto cambia, in continuazione... persino io. Già, non l'avevo detto, ma ho il potere di "rigenerarmi" (di fatti, ho più di 1200 anni, ormai), per questo l'attore che mi interpreta di quando in quando cambia. E la colonna sonora non è affatto male: al di là del tema principale, che è iconico quanto la cabina telefonica, i brani musicali sono frizzanti o malinconici a seconda della necessità.



Dududu-dududu-dududu duh duh duh... Wiiiuuuuuuh!

Quindi, certo, è una serie che va vista contestualizzandola - perché non ha rinunciato alla "continuità" con l'universo (tele)filmico prodotto fino a quel momento e, quindi, soffre di alcuni acciacchi dovuti all'invecchiamento. Tuttavia, si offre leggera e vivace, spaziando da momenti ilari a momenti drammatici con la stessa efficacia e semplicità con cui ti chiede di accettarne il preambolo.
Quindi, direte voi, c'è un Dottore che salva il mondo e che si fa aiutare spesso da alcuni compagni, ok. Ma Dottore chi? Oooh! Bene. Ecco, ci siamo. Avete fatto la domanda giusta.
Certo, di sicuro io non vi risponderò, ma senza che qualcuno ve lo spieghi in maniera diretta, basterà guardare il telefilm per comprendere con chi avete a che fare: un super eroe buono, strano, che non ricorre (quasi) mai alla violenza e geniale più di... tutti, direi.
Quindi, a chiunque - e intendo proprio chiunque, al di là delle proprie preferenze personali e del proprio sistema galattico di appartenenza - consiglio vivamente di provare a guardare un episodio, anche solo uno a caso, di questa fantastica serie. Sono sicuro che vi piacerà o, quantomeno, vi strapperà un sorriso.
Come faccio a saperlo? Semplice.
Sono il Dottore.


Il Dottore (e Blaze, che si è assicurato il tutto avesse un senso)





Jupiter-Ascending


...o come lo hanno sottotitolato in italiano, "il destino dell'universo". Anche se, spoiler free (dato che lo si capisce dal trailer stesso), al massimo si tratta del destino della Terra.
Ho voluto buttare giù subito la mia recensione perché è una cosa che di solito non faccio (recensire, non scrivere di getto) e che trovo invece si addica bene ad uno spazio personale-barra-pubblico come un blog.
In ogni caso, voglio vergare un mio breve commento a caldo proprio per non ragionarci troppo e perdere così di vista ciò che conta: le sensazioni che ho provato, come l'ho trovato e cosa mi ha lasciato. Sempre e comunque de gustibus, anche perché non ho la pretesa di ergermi ad esperto di cinema o critico di un qualche tipo.
Dunque, il film è... carino, direi, ma niente di più. L'ambientazione è un 'accozzaglia di idee -alcune molto buone e originali, altre già viste o/e di scarso impatto (quando non di cattivo gusto)- ma è ben amalgamata e lo scheletro su cui si erge è solido ed avvincente. Meno valido il pretesto per la storia, anche se la trama non arriva mai ad essere completamente scadente, al massimo prevedibile. Belle certe scene, certe fotografie, certi momenti di ampio respiro visivo... ma nulla di veramente significativo. Nessun impatto che lasci il segno, che ti lasci un pezzo di storia impresso nella retina e nella memoria per gli istanti successivi al suo passaggio sullo schermo.
Alcuni personaggi sono un po' piatti, quasi tutti stereotipati, ma per il resto si lascia guardare.
Le scene di battaglia sono abbastanza lunghe, forse troppo, eppure rimangono godibili (io ne avrei sacrificate alcune per dare più spazio alle spiegazioni sull'ambientazione, ma non mi sono comunque annoiato).
Alla fine dei conti, se si passa sopra all'abuso di transizioni un po' rapide tra una scena e l'altra e all'illustrazione dell'ambientazione un po' frettolosa, il film rimane accattivante.
Me lo sono guardato tutto con piacere: non fischietteró le sue musiche, né cercherò siti dedicati o pagine ufficiali per approfondire quel misto di sci-fi e fantasy che Jupiter propone - un po' arrogante, un po' sicuro di sé - ma di certo posso dire di essermi divertito. È comunque un mondo in più, scaturito dalla fantasia di qualcun altro (e che qualcuno, i fratelli Wachowski!), quindi ben venga!
Non ho sprecato soldi del biglietto o tempo, stasera. Non consiglio ad altri di andare a vederlo, ma neppure lo sconsiglio, perché anche se non è un capolavoro, la serata te la fa passare e un po' di ispirazione per le tue storie, i tuoi racconti e la tua immaginazione te la regala comunque.
Già questo, per me, significa abbastanza.


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