mercoledì 31 agosto 2016

BlogScreen: The Shallows (Paradise Beach - Dentro l'incubo)

[Scusate la premessa, ma prima di parlare del film sono costretto a criticare la traduzione del titolo. Lo so, lo so: c'è così tanto da dire riguardo al modo – tutto nostrano – di cambiare il nome delle pellicole al cinema che ormai se ne potrebbe fare uno sport; e ri-lo so, dietro ci sono strategie di pubblicità e marketing per rendere il prodotto più accessibile e identificabile dalla massa dei consumatori... però, per le bobine di Hitchcock, mi spiegate perché è tanto necessario togliere una parola inglese per poi ficcarcene comunque altre due, seguite da un sottotitolo italiano? E ri-ri-lo so che “Paradise Beach” chiunque riesce a tradurlo, mentre “The Shallows” probabilmente non fa emergere alcun ricordo scolastico, né fa scattare assonanze, cosicché ti tocca cercartelo su un dizionario (a proposito, in un simile contesto, il mio dice che si tratta del termine per “acque poco profonde”, il che ha perfettamente senso), ma accidenti alla cinepresa di Spielberg! Perché cavolo sostituisci l'inglese con l'inglese, se tanto poi ci devi mettere un sottotitolo come “Dentro l'incubo”?
Non si poteva, come poi si fa di solito in questi casi, lasciare il titolo originale e legare a quello la nostra “poetica” evocazione? Non erano abbastanza esplicite le locandine con la spiaggia in lontananza, il mare caraibico, lo squalo sul fondale e la bella Blake Lively che surfa poco sopra?
Vabbé, chiudo qui questo discorso e mi concentro sulla recensione vera e propria...]




Che dire? Le premesse del film erano piuttosto chiare sin dal trailer, non mi aspettavo chissà cosa... e forse, visto con questo spirito, il film raggiunge pienamente il suo scopo. Non ha la pretesa di porsi a paragone coi grandi colossal che lo hanno preceduto nel trattare il medesimo argomento; nessun confronto, quindi, o almeno nessun guanto di sfida allo “Squalo” o ai suoi sequel, magari giusto un tentativo di svecchiamento rispetto al glorioso passato e una presa di distanza dalle malecopie che hanno affastellato il cinema negli ultimi tempi. Stop. Per il resto, ciò che si percepisce è un puro intento ricreativo. Ora, io non so se dietro al semplice intrattenimento, il regista Jaume Collet-Serra e lo sceneggiatore Anthony Jaswinski avessero pensato di nascondere una qualche morale di fondo, una magari sull'importanza del rispetto della vita e il bisogno di lottare, ma non lo credo. Sì, magari ci sono due o tre riferimenti alla catastrofe portata dall'uomo in luoghi incontaminati, o al fatto che arrendersi equivale a lasciar morire il proprio vero io e le proprie naturali inclinazioni. È persino chiaro l'intento, un po' forzoso, di inspessire la trama di un significato più profondo, quello di un viaggio verso la scoperta di se stessi e della propria forza interiore... tuttavia, l'intento primario rimane preponderante: divertire, alzare la tensione, regalare un po' di emozioni forti a buon prezzo e, perché no?, strappare qualche sorriso nel vedere la protagonista trovare il coraggio per affrontare la sua (improvvisa) nemesi.

La trama è particolarmente lineare, fuori e dentro il sottotesto: una ragazza in cerca di una risposta su cosa fare della propria vita abbandona gli studi di medicina dopo la morte della propria madre, avvenuta a causa di un brutto male. Rivisitando i posti in cui quest'ultima era stata durante la sua gravidanza, ritrova la spiaggia spesso vista nelle foto di casa: un luogo splendido e disabitato dove lei era solita fare surf. Guarda caso, anche alla protagonista piace farlo. Rimasta sola in quel mare, prima di poter tornare a riva a riposarsi, la ragazza viene attaccata da un enorme squalo ed è costretta a rifugiarsi su alcuni faraglioni – o scogli, non è dato saperlo – in attesa di qualche soccorso. Solo che, come detto, si tratta di un luogo sconosciuto ai più... e via con la classica lotta per la sopravvivenza!

Apprezzabile la ridotta presenza di jump scare, spesso abusati in questo genere di film, a favore di una ben più proficua tensione narrativa, così come la recitazione della protagonista e la fotografia (anche se, visto il paesaggio prescelto, credo sarebbe stato davvero impensabile sbagliare proprio quest'ultima). Buona anche la regia e intrigante quanto basta la storia, nonostante qualche banalità e più di una situazione al limite del credibile. Il tutto, comunque, è compresso in un tempo accettabile: la durata del film, infatti, arriva a malapena all'ora e mezza.

Insomma, sarò onesto: sono andato a vedere The Shallows aspettandomi una cagata pazzesca e, nel suo essere comunque un prodotto sopra le righe, alla fine sono stato piacevolmente accontentato. Potrebbe valere la sua visione al cinema per la buona dose di effetti speciali usati per rendere credibile lo squalo (davvero ben fatto) e per il clima buio e silenzioso della sala, particolarmente adatto alla pellicola... ma da qui a consigliare il biglietto ne passa di acqua sotto la tavola da surf!

lunedì 29 agosto 2016

Recensione: Mistborn - L'Ultimo Impero


Brandon Sanderson
Chi mi conosce sa quanto apprezzi Brandon Sanderson, scrittore statunitense fedele principalmente al genere fantasy, con qualche sortita nello sci-fi. Mi soffermo rapidamente sullo stile dell'autore per non dover riprendere il discorso quando recensirò altri suoi libri. Oltre ad avere una forma semplice ed efficace – un tipo di scrittura che non grida al miracolo, ma sa farsi decisamente apprezzare – Sanderson ha la grande capacità di creare ambientazioni solide e dense di informazioni, che puntualmente rifila al lettore poco per volta. Già, perché è proprio questa la sensazione che si ha con i suoi romanzi: quella di essere di fronte a un grande e vasto mondo da scoprire senza fretta. Maestro nell'elaborare per filo e per segno le basi dell'innaturale nei propri universi (che si tratti di peculiari forme di magia o superpoteri), Sanderson non viene mai meno al patto narrativo col lettore e non infrange i limiti imposti dalla sua ambientazione. In pratica, fornisce al lettore – e a se stesso – delle regole precise e poi, abbastanza sorprendentemente in un ambito facile alle esagerazioni e ai deus ex machina, le rispetta: questo esempio non è fatto a caso, dato che lo stesso autore ha definito dei macro-dogmi nella costruzione di ambientazioni, personaggi e storie fantasy che si impone di seguire ad ogni nuova fatica letteraria (e che raccomanda anche agli altri aspiranti scrittori).
Questo preambolo necessario introduce perfettamente l'identità, il fulcro stesso di Mistborn – L'ultimo Impero. Primo libro di una saga che conta diversi romanzi (una prima trilogia, un racconto di raccordo e una seconda trilogia ancora in corso d'opera), è ritenuto dai più il miglior libro dell'autore e, benché io non abbia letto la sua intera produzione, posso immaginare si tratti di voci fondate.
Senza nulla togliere al resto delle sue fatiche, Mistborn – L'Ultimo Impero presenta tutte le caratteristiche che un lettore di fantasy accanito potrebbe desiderare: freschezza e originalità dell'ambientazione, personaggi credibili (e pregni di limiti, il che non guasta), una storia avvincente e un intreccio che non manca di stupire, grazie a qualche ottimo colpo di scena e a una sapiente regia. Non annoia e non stanca, due concetti che per me hanno un significato leggermente diverso: infatti, non solo non mi è mai successo di chiedermi se avesse senso continuare a leggere piuttosto che fare altro, ma neppure mi è mai capitato di dover posare il libro, per quanto ben fatto, per il bisogno di svagarmi altrimenti.

La trama è in realtà piuttosto semplice, nella sua ossatura: ci troviamo in una società distopica dove solo pochi hanno il potere, i Nobili e l'Imperatore su tutti, e moltissimi vivono in schiavitù, gli skaa (in effetti, si potrebbe ravvisare una critica al nostro mondo e i suoi sistemi, ma il parallelismo è un po' banale e probabilmente forzato...). Da qui prende le mosse un famoso fuorilegge, Kelsier, che è stato capace di spezzare le catene dell'oppressione e che ha deciso di mettere insieme una piccola organizzazione al fine di rovesciare l'impero “malvagio” e ridare la libertà ai suoi simili. In questo clima di ribellione viene a trovarsi coinvolta una ragazza, Vin, la protagonista del libro, che grazie alle sue capacità speciali riesce a farsi accettare nella banda del fuorilegge e a prendere parte a una guerra mai vista prima.
Premesse quasi banali, vero? Beh, non proprio, ma il sentore di già visto è certamente forte. Non ha importanza, però, perché l'originalità e la novità si trovano altrove. Non mi dilungherò a parlare del continuo della trama, che presenta un'appagante raccolta di indizi utili a eviscerare il sorprendente finale e che, alla stregua di un puzzle, trovano in conclusione la loro collocazione nell'insieme narrativo; né mi soffermerò ulteriormente sui personaggi, che guadagnano spessore nella loro costante crescita psicologica, là dove è possibile, o nella scoperta della loro reale natura.
È la stessa struttura fantasy a guadagnare la scena, piuttosto: i protagonisti e buona parte degli antagonisti sono infatti in grado di sfruttare un particolare tipo di alchimia, chiamata “Allomanzia”, che concede loro poteri peculiari, tra cui (ne cito solo alcuni) l'amplificazione dei sensi, l'incremento delle proprie capacità fisiche e una strana forma di magnetismo, tramite la quale i personaggi possono attirare a sé, o respingere, metalli e compiere balzi enormi. Queste forma di magia, più vicina all'ambito fumettistico che alla cultura fantasy tradizionale, è garantita dall'ingestione di piccole quantità di specifici metalli, poi consumati dall'allomante di turno tramite una sorta di mistica combustione interna.
Possedute in misura minore dai misting, che possono sfruttare un singolo tipo di potere, e in toto dai mistborn, individui che riescono invece a usare ogni tipo di metallo dalle proprietà accertate, queste abilità soprannaturali sono perfettamente regolamentate da Sanderson e fungono da fulcro centrale di tutta l'ambientazione.




Il mio consiglio è quello di immergervi nella lettura senza attendere oltre, perché Mistborn – L'Ultimo Impero sa colpire lì dove serve e lo fa con un ritmo incalzante e fresco, dosando perfettamente la quantità di azione, analisi psicologica, narrazione degli eventi e presentazione dell'ambientazione.
Un mosaico, o magari puzzle – per riprendere la metafora già inserita in precedenza – certamente ampliabile (non a caso si tratta dell'inizio di una saga), ma pienamente soddisfacente anche preso da solo.

Piccola nota finale per chi teme di impelagarsi in una serie di lunghe letture: sebbene il libro conti parecchie pagine (oltre le seicento, a seconda dell'edizione), è perfettamente fruibile anche senza completare la prima trilogia, salvo il piccolo scotto di non recuperare il background dietro alcuni dei misteri lasciati volutamente in sospeso – e approfonditi nei testi successivi.