martedì 27 settembre 2016

BlogScreen: Lo chiamavano Jeeg Robot

 


Partiamo da un presupposto: non sono un gran esperto di cinema italiano (sarebbe meglio dire “di cinema” in generale) e infatti non guardo molte pellicole nostrane, ma questo non significa che non ne abbia affatto un'idea – o che si tratti di una declinazione peggiore di quella hollywoodiana.
Per la verità, mai come in questo caso potrebbe valere il famoso motto “due pesi e due misure”: il budget delle produzioni del nostro amato stivale è certamente più basso di quasi tutti – se non proprio tutti – i film che vengono finanziati in America e che io tendo a guardare al cinema (come avrete edotto dalle altre recensioni su questo Blog).
Certo, certo, si potrebbe spendere un fiume di parole per evidenziare le differenze che passano tra le due categorie, ma più in generale diciamo che alla profonda introspezione psicologica delle nostre pellicole (non comico-demenziali, se proprio vogliamo fare una precisazione) corrisponde anche una minor vivacità delle scene e un contesto piuttosto realistico.

Lo chiamavano Jeeg Robot” rientra perfettamente in questa analisi, ma sfonda le pareti imposte dalla sua provenienza, impedendo una categorizzazione tanto schematica – un'operazione che solo un ottima pellicola può riuscire a compiere. Anzi, a conti fatti non si limita a questo, ma evidenzia come il mio stereotipare (e come me, molti altri lo fanno spesso) sia soltanto una congestione critica, un piccolo malanno analitico perfettamente guaribile.
In questo film, l'azione passa con facilità dal movimento frenetico all'attimo contemplativo e la psicologia dei personaggi è perfettamente analizzata, spesso da vicino e con la lente d'ingrandimento, senza dover per forza ricorrere a monologhi e riflessioni in sottofondo, a silenzi troppo lunghi e sovraccaricati di significati.
Questo è probabilmente il più grande merito di “Lo chiamavano Jeeg Robot”: la sua completa fruibilità, la sua accessibilità. C'è di più! Questo pregio non degenera in una limitazione: non si riduce ai minimi termini, escludendo ogni altra possibile declinazione, anzi. A voler approfondire, a volercisi immergere più a fondo, è possibile scorgere i connotati più reconditi dei personaggi e procedere a diversi livelli di lettura.
No, no, non è un film pesante – a chi, come me, tende a preferire pellicole che non implichino uno sforzo di tipo intellettuale o riflessivo.
No, no, non è un film d'azione nel senso stretto del termine – a chi si fosse fatto l'idea sbagliata.
No, no, ancora una volta: non è neppure un film d'ispirazione giapponese, a chi fosse stato tratto in fallo dal titolo. Beh, l'impronta fumettistica (forse più “comics” che “manga”) è particolarmente evidente, ma confinata comunque entro i limiti e gli scopi della sceneggiatura – per altro abbastanza buona.

Non saprei dire chi sia più capace tra gli attori principali, tutti ottimi (anche se Ilenia Pastorelli spicca nel suo ruolo), né ho critiche particolari verso la regia. Trovo semplicemente che cast, operatori e direttori procedano in un perfetto equilibrio verso il confezionamento dell'opera e che l'amalgama delle singole parti restituisca una sensazione di completezza e ottima resa finale.

La trama, che rimane interessante e originale se si pensa al contesto nostrano, è piuttosto semplice: un criminale di bassa lega, che si appoggia a una risma di individui più pericolosi di lui – ma comunque facenti parte della bassa marmaglia della “peggio Roma” – durante una fuga rocambolesca finisce per entrare in contatto con una non meglio precisata sostanza radioattiva. Non viene fornita alcuna spiegazione circa la presenza di questo elemento nel film, e la cosa è voluta: il rifiuto chimico è infatti solo il pretesto per avviare la macchina narrativa e non ha una reale importanza nella storia (salvo tornare sul finale), se non per giustificare ciò che accade al protagonista. Enzo Ceccotti, l'atipico eroe della vicenda, ottiene infatti dei superpoteri.
Deciso a sfruttare i suoi nuovi doni (forza e resistenza inumane, oltre a una rigenerazione di ispirazione wolveriniana), opta per una via legata a doppia mandata alla sua vita da criminale, se non fosse che...
Beh, senza andare sul banale e lo scontato, il pretesto per il cambiamento interiore e morale del protagonista avviene ovviamente grazie a una donna, la co-protagonista Alessia, che si delinea sin da subito come il personaggio più singolare della pellicola e che ha una chiara ossessione (nel senso clinico del termine) per l'opera di Tatsuya Yasuda e Gō Nagai, il “Jeeg robot d'acciaio” che dà il titolo al film stesso.
In un contesto ispirato ai fumetti, non può mancare un antagonista sopra le righe... e infatti c'è: lo “Zingaro”, un criminale che con certi suoi vezzi e scatti d'ira ricorda una sorta di “Joker” Batmaniano. Ok, adesso la finisco con questi aggettivi “su licenza”.

Il punto è che il tutto viene presentato in modo non solo credibile e realistico (con l'ovvia sospensione dell'incredulità), ma anche vicino al nostro mondo quotidiano – almeno, a quello risultante dalla cronaca giornaliera (nera o meno). Non appare quindi strano che l'eroe venga idolatrato da graffitari vari e dal popolo di YouTube, nonostante la sua scorrettezza, o che i suoi nemici siano coinvolti in loschi affari con note organizzazioni malavitose, oppure ancora che una partita di calcio, una ruota panoramica o persino un centro commerciale possano divenire l'ambientazione perfetta per il consumarsi di azioni inumane o, ancora, tenerissime.
“Lo chiamavano Jeeg Robot” rappresenta un esperimento riuscito che merita certamente una visione anche da parte del più scettico spettatore nostrano, lo stesso che magari non si aspetta altro, dal cinema italiano, che l'ennesimo cinepanettone.

Nessun commento:

Posta un commento