Partiamo da
un presupposto: non sono un gran esperto di cinema italiano (sarebbe
meglio dire “di cinema” in generale) e infatti non guardo molte
pellicole nostrane, ma questo non significa che non ne abbia affatto
un'idea – o che si tratti di una declinazione peggiore di quella
hollywoodiana.
Per la
verità, mai come in questo caso potrebbe valere il famoso motto “due
pesi e due misure”: il budget delle produzioni del nostro amato
stivale è certamente più basso di quasi tutti – se non proprio
tutti – i film che vengono finanziati in America e che io tendo a
guardare al cinema (come avrete edotto dalle altre recensioni su
questo Blog).
Certo,
certo, si potrebbe spendere un fiume di parole per evidenziare le
differenze che passano tra le due categorie, ma più in generale
diciamo che alla profonda introspezione psicologica delle nostre
pellicole (non comico-demenziali, se proprio vogliamo fare una
precisazione) corrisponde anche una minor vivacità delle scene e un
contesto piuttosto realistico.
“Lo chiamavano Jeeg Robot” rientra perfettamente in questa analisi, ma sfonda le pareti imposte dalla sua provenienza, impedendo una categorizzazione tanto schematica – un'operazione che solo un ottima pellicola può riuscire a compiere. Anzi, a conti fatti non si limita a questo, ma evidenzia come il mio stereotipare (e come me, molti altri lo fanno spesso) sia soltanto una congestione critica, un piccolo malanno analitico perfettamente guaribile.
In questo
film, l'azione passa con facilità dal movimento frenetico all'attimo
contemplativo e la psicologia dei personaggi è perfettamente
analizzata, spesso da vicino e con la lente d'ingrandimento, senza
dover per forza ricorrere a monologhi e riflessioni in sottofondo, a
silenzi troppo lunghi e sovraccaricati di significati.
Questo è
probabilmente il più grande merito di “Lo chiamavano Jeeg Robot”:
la sua completa fruibilità,
la sua accessibilità. C'è di più! Questo pregio non
degenera in una limitazione: non si riduce ai minimi termini,
escludendo ogni altra possibile declinazione, anzi. A voler
approfondire, a volercisi immergere più a fondo, è possibile
scorgere i connotati più reconditi dei personaggi e procedere a
diversi livelli di lettura.
No, no, non
è un film pesante – a chi, come me, tende a preferire pellicole
che non implichino uno sforzo di tipo intellettuale o riflessivo.
No, no, non
è un film d'azione nel senso stretto del termine – a chi si fosse
fatto l'idea sbagliata.
No, no,
ancora una volta: non è neppure un film d'ispirazione giapponese, a
chi fosse stato tratto in fallo dal titolo. Beh, l'impronta
fumettistica (forse più “comics” che “manga”) è
particolarmente evidente, ma confinata comunque entro i limiti e gli
scopi della sceneggiatura – per altro abbastanza buona.
Non saprei
dire chi sia più capace tra gli attori principali, tutti ottimi
(anche se Ilenia Pastorelli spicca nel suo ruolo), né ho
critiche particolari verso la regia. Trovo semplicemente che cast,
operatori e direttori procedano in un perfetto equilibrio verso il
confezionamento dell'opera e che l'amalgama delle singole parti
restituisca una sensazione di completezza e ottima resa finale.
La trama,
che rimane interessante e originale se si pensa al contesto nostrano,
è piuttosto semplice: un criminale di bassa lega, che si appoggia a
una risma di individui più pericolosi di lui – ma comunque facenti
parte della bassa marmaglia della “peggio Roma” – durante una
fuga rocambolesca finisce per entrare in contatto con una non meglio
precisata sostanza radioattiva. Non viene fornita alcuna
spiegazione circa la presenza di questo elemento nel film, e la cosa
è voluta: il rifiuto chimico è infatti solo il pretesto per avviare
la macchina narrativa e non ha una reale importanza nella storia
(salvo tornare sul finale), se non per giustificare ciò che accade
al protagonista. Enzo Ceccotti, l'atipico eroe della vicenda, ottiene
infatti dei superpoteri.
Deciso a
sfruttare i suoi nuovi doni (forza e resistenza inumane, oltre a una
rigenerazione di ispirazione wolveriniana), opta per una via legata a
doppia mandata alla sua vita da criminale, se non fosse che...
Beh, senza
andare sul banale e lo scontato, il pretesto per il cambiamento
interiore e morale del protagonista avviene ovviamente grazie a una
donna, la co-protagonista Alessia, che si delinea sin da subito come
il personaggio più singolare della pellicola e che ha una chiara
ossessione (nel senso clinico del termine) per l'opera di Tatsuya
Yasuda e Gō Nagai, il “Jeeg robot d'acciaio” che dà il titolo
al film stesso.
In un
contesto ispirato ai fumetti, non può mancare un antagonista sopra
le righe... e infatti c'è: lo “Zingaro”, un criminale che con
certi suoi vezzi e scatti d'ira ricorda una sorta di “Joker”
Batmaniano. Ok, adesso la finisco con questi aggettivi “su
licenza”.
Il punto è
che il tutto viene presentato in modo non solo credibile e
realistico (con l'ovvia sospensione dell'incredulità), ma
anche vicino al nostro mondo quotidiano – almeno, a quello
risultante dalla cronaca giornaliera (nera o meno). Non appare quindi
strano che l'eroe venga idolatrato da graffitari vari e dal popolo di
YouTube, nonostante la sua scorrettezza, o che i suoi nemici siano
coinvolti in loschi affari con note organizzazioni malavitose, oppure
ancora che una partita di calcio, una ruota panoramica o persino un
centro commerciale possano divenire l'ambientazione perfetta per il
consumarsi di azioni inumane o, ancora, tenerissime.
“Lo
chiamavano Jeeg Robot” rappresenta un esperimento riuscito
che merita certamente una visione anche da parte del più scettico
spettatore nostrano, lo stesso che magari non si aspetta altro, dal
cinema italiano, che l'ennesimo cinepanettone.
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