martedì 27 settembre 2016

BlogScreen: Lo chiamavano Jeeg Robot

 


Partiamo da un presupposto: non sono un gran esperto di cinema italiano (sarebbe meglio dire “di cinema” in generale) e infatti non guardo molte pellicole nostrane, ma questo non significa che non ne abbia affatto un'idea – o che si tratti di una declinazione peggiore di quella hollywoodiana.
Per la verità, mai come in questo caso potrebbe valere il famoso motto “due pesi e due misure”: il budget delle produzioni del nostro amato stivale è certamente più basso di quasi tutti – se non proprio tutti – i film che vengono finanziati in America e che io tendo a guardare al cinema (come avrete edotto dalle altre recensioni su questo Blog).
Certo, certo, si potrebbe spendere un fiume di parole per evidenziare le differenze che passano tra le due categorie, ma più in generale diciamo che alla profonda introspezione psicologica delle nostre pellicole (non comico-demenziali, se proprio vogliamo fare una precisazione) corrisponde anche una minor vivacità delle scene e un contesto piuttosto realistico.

Lo chiamavano Jeeg Robot” rientra perfettamente in questa analisi, ma sfonda le pareti imposte dalla sua provenienza, impedendo una categorizzazione tanto schematica – un'operazione che solo un ottima pellicola può riuscire a compiere. Anzi, a conti fatti non si limita a questo, ma evidenzia come il mio stereotipare (e come me, molti altri lo fanno spesso) sia soltanto una congestione critica, un piccolo malanno analitico perfettamente guaribile.
In questo film, l'azione passa con facilità dal movimento frenetico all'attimo contemplativo e la psicologia dei personaggi è perfettamente analizzata, spesso da vicino e con la lente d'ingrandimento, senza dover per forza ricorrere a monologhi e riflessioni in sottofondo, a silenzi troppo lunghi e sovraccaricati di significati.
Questo è probabilmente il più grande merito di “Lo chiamavano Jeeg Robot”: la sua completa fruibilità, la sua accessibilità. C'è di più! Questo pregio non degenera in una limitazione: non si riduce ai minimi termini, escludendo ogni altra possibile declinazione, anzi. A voler approfondire, a volercisi immergere più a fondo, è possibile scorgere i connotati più reconditi dei personaggi e procedere a diversi livelli di lettura.
No, no, non è un film pesante – a chi, come me, tende a preferire pellicole che non implichino uno sforzo di tipo intellettuale o riflessivo.
No, no, non è un film d'azione nel senso stretto del termine – a chi si fosse fatto l'idea sbagliata.
No, no, ancora una volta: non è neppure un film d'ispirazione giapponese, a chi fosse stato tratto in fallo dal titolo. Beh, l'impronta fumettistica (forse più “comics” che “manga”) è particolarmente evidente, ma confinata comunque entro i limiti e gli scopi della sceneggiatura – per altro abbastanza buona.

Non saprei dire chi sia più capace tra gli attori principali, tutti ottimi (anche se Ilenia Pastorelli spicca nel suo ruolo), né ho critiche particolari verso la regia. Trovo semplicemente che cast, operatori e direttori procedano in un perfetto equilibrio verso il confezionamento dell'opera e che l'amalgama delle singole parti restituisca una sensazione di completezza e ottima resa finale.

La trama, che rimane interessante e originale se si pensa al contesto nostrano, è piuttosto semplice: un criminale di bassa lega, che si appoggia a una risma di individui più pericolosi di lui – ma comunque facenti parte della bassa marmaglia della “peggio Roma” – durante una fuga rocambolesca finisce per entrare in contatto con una non meglio precisata sostanza radioattiva. Non viene fornita alcuna spiegazione circa la presenza di questo elemento nel film, e la cosa è voluta: il rifiuto chimico è infatti solo il pretesto per avviare la macchina narrativa e non ha una reale importanza nella storia (salvo tornare sul finale), se non per giustificare ciò che accade al protagonista. Enzo Ceccotti, l'atipico eroe della vicenda, ottiene infatti dei superpoteri.
Deciso a sfruttare i suoi nuovi doni (forza e resistenza inumane, oltre a una rigenerazione di ispirazione wolveriniana), opta per una via legata a doppia mandata alla sua vita da criminale, se non fosse che...
Beh, senza andare sul banale e lo scontato, il pretesto per il cambiamento interiore e morale del protagonista avviene ovviamente grazie a una donna, la co-protagonista Alessia, che si delinea sin da subito come il personaggio più singolare della pellicola e che ha una chiara ossessione (nel senso clinico del termine) per l'opera di Tatsuya Yasuda e Gō Nagai, il “Jeeg robot d'acciaio” che dà il titolo al film stesso.
In un contesto ispirato ai fumetti, non può mancare un antagonista sopra le righe... e infatti c'è: lo “Zingaro”, un criminale che con certi suoi vezzi e scatti d'ira ricorda una sorta di “Joker” Batmaniano. Ok, adesso la finisco con questi aggettivi “su licenza”.

Il punto è che il tutto viene presentato in modo non solo credibile e realistico (con l'ovvia sospensione dell'incredulità), ma anche vicino al nostro mondo quotidiano – almeno, a quello risultante dalla cronaca giornaliera (nera o meno). Non appare quindi strano che l'eroe venga idolatrato da graffitari vari e dal popolo di YouTube, nonostante la sua scorrettezza, o che i suoi nemici siano coinvolti in loschi affari con note organizzazioni malavitose, oppure ancora che una partita di calcio, una ruota panoramica o persino un centro commerciale possano divenire l'ambientazione perfetta per il consumarsi di azioni inumane o, ancora, tenerissime.
“Lo chiamavano Jeeg Robot” rappresenta un esperimento riuscito che merita certamente una visione anche da parte del più scettico spettatore nostrano, lo stesso che magari non si aspetta altro, dal cinema italiano, che l'ennesimo cinepanettone.

venerdì 23 settembre 2016

La qualità meno evidente

La costanza è probabilmente la qualità più importante e nel contempo più bistrattata tra quelle prese in esame quando si parla di scrittori.
Vedo e sento spesso – sui social, sui forum in generale, ma anche solo chiacchierando dal vivo – che il talento è considerato il non plus ultra delle caratteristiche desiderabili. Dopotutto, se uno è portato per qualcosa, certamente gli riuscirà facile eseguirla e avrà ottimi risultati... no?
Beh, no. Non è detto, almeno.
Non voglio sembrare polemico, ma anche supponendo che il mondo sia colmo di persone particolarmente dotate per la scrittura, non credo che il numero di opere scritte e pronte per la pubblicazione ne eguagli il numero. Francamente, dubito persino che lo scarto si attesti sopra la metà.
Perché? Beh, perché la costanza è un elemento chiave, una qualità che non tutti sanno mettere in gioco. No, no, non è innata come il talento: la costanza è alla portata di tutti, solo... più “severa”. Ti affatica, ti fa sudare, ti costringe a fare e rifare le stesse cose mille volte, prima di ottenere il giusto risultato.
In molti, credo, sottovalutano la cruciale importanza della costanza, che assomiglia all'impegno, ma possiede una sua sfumatura. Non è solo il profondere dei propri sforzi in una data attività, ma il suo perpetuarsi nel tempo. Dopotutto, certi risultati non si ottengono in fretta, e la stesura di un libro men che meno.
Sì, ci saranno sicuramente persone ispirate, capaci di realizzare la propria opera in poche giornate; tuttavia, si tratta di casi isolati, più unici che rari. La maggior parte degli scrittori dovrà tornare sulle proprie pagine più e più volte, prima di accumularne il numero necessario a raccontare la storia o il concetto desiderati. Poi occorre rileggere e correggere... e questa operazione potrebbe risultare persino più lunga della prima, a seconda del grado di soddisfazione ricercato (perché di una sfumatura si tratta: nessuno scrittore è mai del tutto contento di ciò che ha appena steso, in una continua corsa verso il miglioramento – piuttosto che verso la “perfezione”).
Ecco perché quando vedo o sento di uno scrittore sconosciuto o magari un po' bistrattato, forse persino canzonato per la sua opera (che, sempre magari, potrebbe essere davvero pessima), mi infiammo un po'.
Non mi sento il difensore degli ultimi, sia ben chiaro, ma un po' di stima, un riconoscimento anche piccolo in apparenza, ma grande nella sua essenza, bisogna concederglielo: ha completato il suo libro. Con un po' di fortuna, lo ha persino pubblicato.
Tempo e impegno, quindi fatica: in una parola, costanza.
A ben pensarci, però, forse la parola che cerco è passione. Ecco, sì: è questa la qualità meno evidente.


lunedì 19 settembre 2016

BlogScreen: Alla ricerca di Dory - Finding Dory




Chi ha visto “Alla ricerca di Nemo”? Tutti? Bene, perché senza il primo della saga, “Alla ricerca di Dory” può essere goduto solo a metà.
No, va bene, ho esagerato: guardare il secondo da solo è possibilissimo, ma decisamente sconsigliabile data la mole di riferimenti e il background (per quel che serve) dei personaggi.
Detto questo, quello che abbiamo di fronte non è certo un capolavoro, ma rimane un buon film.
L'azione ben dosata, le battute abbastanza divertenti (e, per fortuna, non esaurite nei vari trailer) e l'ambientazione marina conferiscono al titolo la stessa verve del suo avo – perché ormai sono passati tredici anni – senza però snaturare troppo l'idea alla base della serie. Ma poi, con solo due film si potrà parlare di serie?

Certo, essendo un lungometraggio animato, molti elementi che normalmente farebbero storcere il naso godono in questo caso di un salvacondotto speciale che permette loro di passare inosservati. Azioni al limite del rocambolesco, sopra le righe, persino contro la logica (e la fisica) diventano perfettamente accettabili, ammantate nel dolce abbraccio di una doppia sospensione dell'incredulità: quella premessa all'ambientazione stessa e una posta più a monte, in qualità di opera digitale destinata a un pubblico giovane.
Questo però non significa che certe scene non appaiano del tutto assurde (qualunque riferimento a una certa sequenza sul finale del film è puramente casuale...), persino agli occhi di chi ha già accettato di trovarsi di fronte a un'opera tra le più frivole (e ben realizzate) della Disney.

Sul lato tecnico posso dire ben poco, non essendo un esperto: i modelli dei vari personaggi e degli ambienti sono resi ottimamente, come sempre, e catturano completamente lo spettatore. Certi scenari, poi, sono un tripudio di colori e dettagli. Anche regia e sceneggiatura reggono benissimo il confronto col vecchio capitolo, riuscendo a proporre una storia dai presupposti già visti in una salsa abbastanza nuova.
La morale di fondo rivisita ancora una volta le dinamiche parentali, ma si tratta solo di un pretesto per “sprofondare” in altre disamine: in particolare, spiccano il bisogno di comprensione verso i meno fortunati e il superamento dei propri limiti naturali o auto-imposti.

Unica pecca veramente negativa, al di là dello schema narrativo ridondante e della leggerezza dei contenuti (ma poi, si può parlare davvero di negatività, qui?), è forse la mancanza di una colonna sonora capace di emozionare come il precedente capitolo. A me, quantomeno, è rimasto in testa solo il theme del vecchio “Finding Nemo”, ri-arrangiato per l'occasione.
I personaggi secondari, occorre specificarlo, risultano meno affascinanti delle comparse che animavano la trama del primo capitolo, eppure conservano una loro personalità e risultano comunque comici. Nulla di eccezionale (di certo non sono il trio degli squali o i pesci dell'acquario che avevano accompagnato Marlin e Nemo precedentemente), ma al “senza lode” va premesso il “senza infamia”.

In definitiva, ci troviamo di fronte a un sequel ottimamente confezionato, fruibile da grandi e piccini quasi allo stesso modo – come tipico dei prodotti targati Disney – e capace di restituire, oltre a qualche risata, un po' del fascino di quel mare digitale che tredici anni or sono ci aveva rapiti.

venerdì 16 settembre 2016

Recensione: Steelheart

Proprio mentre mi accingevo a scrivere la recensione di questo libro, una riflessione mi ha colto all'improvviso: cosa serve a un'idea per essere ritenuta originale e quando invece finisce per essere associata a un Déjà vu?
Un pensiero ha tirato l'altro e ne è venuto fuori un post per il blog (per gli interessati, qui -> http://imondiinpiu.blogspot.it/2016/09/lessenza-di-una-buona-idea.html ), ma la risposta a queste domande potrebbe essere racchiusa proprio in Steelheart.

Il libro in questione è una delle tante produzioni di Brandon Sanderson (di cui in futuro parlerò più diffusamente, forse, ma che ho già citato nell'analizzare un altro suo romanzo proprio su queste pagine). In realtà, è immediatamente visibile a chiunque che non si tratta del suo miglior lavoro, né di quello più ragionato, studiato e preparato. Che poi, dire una cosa simile di uno scrittore che dà addirittura delle lezioni su come creare al meglio le proprie ambientazioni è un po' una bestemmia, ma lasciamo perdere.

Steelheart, primo libro della saga The Reckoners, è un romanzo dall'impostazione semplice e dalla trama piuttosto lineare: la comparsa in cielo di quella che sembra una stella rossa – ma che è, più probabilmente, qualcos'altro di non meglio identificato – coincide con la manifestazione di superpoteri da parte di alcune persone in giro per il nostro mondo. Questi individui, dotati ciascuno di abilità proprie e peculiari (sparare raggi dalle mani, prevedere il pericolo, manipolare l'elettricità e via andare), superano ogni umana concezione e, benché non siano tutti potenti allo stesso modo, lo sono senz'altro più dei loro simili “normali”. Per timore reverenziale, paura e rispetto, vengono chiamati Epici.
La novità getta tutti gli stati nel caos, dato che i superumani sembrano essere tutti dei supercattivi, più che supereroi. Nel giro di pochi anni, ogni sistema politico e civile è stato ribaltato o soggiogato dagli Epici più potenti e il mondo è diviso fra i loro domini, dove i normali esseri umani sono costretti a vivere in povertà e, talvolta, schiavitù.
Steelheart, il super-antagonista ispirato in modo piuttosto plateale a Superman, è fra i più forti e terribili esemplari di questa nuova specie e domina col pugno di ferro sulla città di Newcago (ovviamente, la ex-Chicago), dove però agiscono anche alcuni sovversivi che si sono ribellati al suo dominio e che altro non vogliono se non eliminare quanti più Epici possibili.
Il protagonista, David, che ammira queste persone, vuole a sua volta vendetta verso quei mostri, in particolare verso Steelheart stesso, che ha ucciso suo padre. Uccidere l'unico Epico che non può essere ferito sembra follia, eppure un barlume di speranza c'è. David, infatti, è l'unico che abbia mai visto quel mostro sanguinare...

Bene, come ovvio che sia, l'ispirazione fumettistica è dichiarata e piuttosto evidente.
A farne un libro originale non sono l'ambientazione supereroistica ribaltata (superantagonistica, quindi?) né la peculiare visione di un mondo post-apocalittico.
Persino la storia narrata non brilla per novità, se scomposta nei suoi elementi base, e non occorre cercare lontano. Proprio il “Mistborn” dello stesso Sanderson viene riproposto in una salsa leggermente diversa, ma dai fondamenti riconoscibilissimi: un sovrano tirannico e apparentemente invincibile, un gruppo di nemici secondari altrettanto mostruosi e un manipoli di ribelli che vedono nascere grazie al protagonista una nuova speranza.
Certo, il paragone fila, ma non si può ridurre ai minimi una narrazione che vive della ricchezza dei suoi elementi costitutivi. A banalizzare, non riusciremmo mai a scorgerne la forte personalità. E poi, molte storie si assomigliano fra loro, almeno nell'ossatura: se ci pensate, Mistborn stesso ricalca i presupposti e le vicende del primo Star Wars, a grandi linea. Persino i grandi classici possono venire sminuiti, se li approcciamo in modo troppo superficiale.

L'originalità dove risiede, allora? La troviamo altrove, ovvero nel modo in cui questi elementi sono arrangiati fra loro e presentati al lettore, pezzo per pezzo, senza mai perdere di credibilità. Anche la capacità di rendere verosimile non solo ciò che accade, ma anche ciò che fa da contesto all'intera storia (ovviamente, col supporto della sospensione dell'incredulità) diviene una marca inconfondibile di questo romanzo, un pregio che lo trasforma in qualcosa di più di una semplice avventura per ragazzi.

E i dettagli? Steelheart ne è costellato e, come sempre, Brandon Sanderson è un maestro nel nasconderli senza renderli trascurabili. Le dinamiche stesse alla base della sua ambientazione hanno il sapore di novità, o per meglio dire, si sposano e amalgamano bene agli eventi narrati e ai personaggi presentati. Ogni Epico, infatti, è dotato di un punto debole, tramite il quale è possibile annullare i suoi poteri e, quindi, ucciderlo più facilmente. Proprio la ricerca di questi talloni d'Achille e le elucubrazioni ad essi legati aggiungono a questa storia frenetica le giuste quantità di mistero e investigazione, un mix che rende la lettura sempre interessante e mai stancante, pur senza snaturarne il genere “avventuroso”.

Steelheart non manca di qualche difetto, ovviamente: alcuni poteri sono poco sensati (spesso quelli legati a macchiette); non tutti i personaggi hanno il fascino dei principali protagonisti della vicenda, buoni o malvagi che siano, e risentono del confronto; non tutto è tracciato con la stessa dovizia di particolari e l'immedesimazione si scontra con qualche calo di tensione qua e là. Eventi sporadici, a dire il vero.
Onestamente, credo che Steelheart valga ben una lettura: è un romanzo vivace, leggero forse, ma piacevole e intrigante. Magari non assurge all'Olimpo della narrativa per ragazzi (dove si siede comodamente Mistborn, per contro), ma di certo si presenta come un ottimo candidato.

mercoledì 14 settembre 2016

L'essenza di una buona idea

Stavo per scrivere la recensione di un libro quando, nell'affrontarne i contenuti, la riflessione si è spostata su argomenti più generali, su quelli che, nella stesura del testo narrativo, potremmo chiamare i massimi sistemi.
Avverto subito che ciò che seguirà, benché abbia un suo filo conduttore e sia tutto sommato un testo breve, è l'espressione di un ragionamento arzigogolato e, forse, un pochino ermetico per chi non avesse gli strumenti (o la voglia, o ancora meglio la follia, che è molto meno presuntuoso) per seguire del tutto il discorso.

Ora, al di là delle premesse, in realtà il concetto è piuttosto semplice: le idee originali, quelle buone, sono rare. Molto rare. La maggior parte delle storie di successo fanno leva su eventi, questioni, particolarità e caratteristiche già viste, riconoscibili.
Il punto è: anche senza inventare una serie di elementi nuovi – oppure, senza scoprirne di mai visti prima – è possibile definire cosa renda l'idea alla base di una storia o di un'ambientazione una buona idea? Come fa un romanzo (o fumetto, o film, o scegliete voi il mezzo di trasmissione che preferite) a risultare originale anche senza offrire, nei suoi elementi costitutivi, qualcosa di inedito?
Io credo che tutto stia nell'arrangiamento di quegli elementi costitutivi, al modo in cui li si assembla. Quella è, a conti fatti, l'essenza dell'idea e la sua punta di originalità.
Molti autori di narrativa (ancora una volta, non mi riferisco al singolo mezzo cartaceo) riescono a produrre ambientazioni e storie, persino personaggi se proprio eccellono (perché “nessun personaggio è uguale a un altro e tutti si assomigliano) che non sanno di già visto, che sembrano davvero unici e particolari. I dettagli, solitamente, lasciano quest'impronta digitale, questa marca di riconoscimento, ancor più che la struttura stessa della realtà trasmessa. Tuttavia, a ben pensarci, quella realtà sarebbe scomponibile: gli elementi contenuti in essa possono essere divisi e suddivisi in base alle loro caratteristiche, al loro utilizzo per lo svisceramento della fabula, per l'ingarbugliarsi dell'intreccio, per il loro amalgama.
Eppure, appaiono originali, vivaci, vividi. Talvolta, quando sono davvero dosati con sapienza o con una talentuosa istintività, questi elementi disegnano mondi, personaggi e storie così peculiari, così riconoscibili, così identificabili e facili all'immedesimazione che si può parlare di “prodotto originale”.
Perché il più delle volte, a mio parere, l'idea originale – originale e buona – trova la sua realizzazione proprio in questa perfetta mescolanza: nell'unione e nella disposizione dei suoi componenti basilari. Come l'immagine di un demiurgo che plasma la materia partendo dagli atomi e le dona forme ed essenze particolari, così un autore – che a questo punto potremmo anche chiamare artista – definisce il suo mondo con pochi tratti primordiali, arricchiti poi da altri di contorno che, amalgamati, fanno dell'ossatura e del rivestimento della propria invenzione un insieme finito e fruibile.

sabato 10 settembre 2016

BlogScreen: Independence Day - Resurgence



Allora, per prima cosa lasciatemi chiarire un punto fondamentale: il primo Independence Day è uno dei film che ho visto più volte in vita mia, vuoi perché lo davano spesso in tv e avevo finito per registrarlo su VHS, vuoi perché me lo sono ritrovato poi in casa in tutte le sue reincarnazioni (dvd, digitale e blu-ray). Ora, onestamente, è difficile essere obiettivi nel prendere in esame qualcosa che si è amato, in un modo o nell'altro, ma cercherò comunque di non farmi influenzare. Perciò credetemi se vi dico che questo sequel (in ritardo di venti anni, quasi se ne sentisse l'esigenza) è piuttosto scadente, persino bruttino. Andiamo con ordine.

La trama è semplice, come lo fu per il primo capitolo: gli alieni cattivi sono tornati e la Terra si trova impreparata nell'affrontare la minaccia. Sta a pochi eroi – vecchi e nuovi – togliere le proverbiali castagne dal fuoco.
Il film precedente fece un certo scalpore, quando uscì nelle sale: mettendo in scena un giovane Will Smith, presentava una storia scontata, dai presupposti stereotipati e diverse assurdità nella sceneggiatura (coff coff – sconfiggere un'avanzatissima civiltà con un banale virus per computer – coff coff), ma il tutto era condito da una massiccia presenza di effetti speciali ottimamente realizzati (almeno per il tempo) e risultava godibile nell'insieme. Un film un po' sopra le righe, ma a cui non è stato difficile affezionarsi.
Ora, è chiaro che da questo seguito ci si aspettavano due cose, entrambe – devo ammettere – effettivamente presenti: che gli effetti speciali e l'uso della più moderna computer grafica fossero ai massimi standard e che il film rimanesse leggero e un po' esagerato.
Cosa non torna allora? Beh, quasi tutto il resto.

Va bene prendere una sceneggiatura leggera e non particolarmente pretenziosa, ma un minimo di credibilità devi comunque mantenerla, o la famosa sospensione dell'incredulità va a farsi benedire.
Le coincidenze si sprecano, con personaggi che arrivano a incontrarsi e unirsi nella lotta nei modi più assurdi e forzati che io abbia mai visto. Si sprecano anche le idiozie: se già il primo aveva fatto sollevare qualche sopracciglia per i metodi di distruzione di massa utilizzati dagli alieni (i cui danni sul pianeta avrebbero dovuto comportare terribili cambiamenti climatici e non solo), questo secondo tentativo vi lascerà del tutto increduli, più che stupiti, e per i motivi sbagliati.
Lo so, lo so, una recensione deve cercare di essere “free spoilers”, e non intendo venir meno a questa regola, ma alcune scene venivano presentate direttamente nel trailer e fanno da sfondo alla vicenda sin dalle sue premesse, quindi vado sul sicuro nel dirvi che non ha assolutamente senso vedere una navicella spaziale grande quanto un quarto della Terra posarsi sopra di essa senza, che ne so, cambiarne l'asse o la rotazione e devastarne l'intero ecosistema. Tanto più che l'obiettivo dichiarato degli alieni è proprio questo. E potrei continuare: il gigantesco raggio laser, grande dieci volte quelli dello scorso film, ha il solo scopo di raggiungere il centro della Terra e annullarne così i campi magnetici, eliminando l'intera atmosfera e uccidendo tutto ciò che vi è di vivo. Vogliamo parlare di quanto anche solo l'idea sia sbagliata? Pensano veramente che quella sia l'unica conseguenza? E davvero gli tsunami provocati da questa operazione possono lasciar in vita qualcosa (e soprattutto “qualcuno”, non dico chi)? E l'acqua che poi continuerebbe a defluire nel cratere?
Mettersi a fare l'analisi a raggi x al film è inutile, quasi ogni elemento presentato su schermo pare insensato o fuori posto (come l'assemblea di tutti i paesi del mondo, un simil-ONU, che però vede il solo Presidente degli Stati Uniti d'America decidere effettivamente come, quanto e quando difendersi dalla minaccia interplanetaria).
I dettagli potevano essere curati di più. Beh, va bene: ANCHE i dettagli. Però, voglio dire, pure loro fanno una bella differenza, no? Sembra una sciocchezza, ma se mi dici, anche molto sagacemente, che l'astronave madre degli alieni ha un suo campo gravitazionale (e come non potrebbe, date le dimensioni?), poi non puoi ignorare tutto il resto e farmi andare un'automobile per le strade alluvionate di una città con la marmitta infilata, in certe inquadrature, evidentemente sotto il livello dell'acqua. Ma poi, fosse solo quello. Davvero, non posso stare qui a elencare tutte le cose che non tornano o non hanno senso, faremmo notte.
Ah, sì, sì, è un film molto rocambolesco, pieno di azione, ma la tensione per ciò che sta accadendo o ciò che potrebbe avvenire, onestamente, non la si avverte mai. Così come non si sente un feeling emotivo verso i protagonisti, o le vittime. Tutto sembra accadere in modo inevitabile, quasi meccanico, senza colpi di scena o picchi di pathos. Piatto, nonostante la massiccia dose di voli in astronave, bombardamenti, fuochi di copertura, corse al limite del tempo e morti.

Gli attori sono un'altra nota dolente. Alcuni hanno delle battute oscene, del tutto fuori posto e, onestamente, fuori contesto (una su tutte, un dialogo tra uno dei protagonisti e una comparsa agli ultimi istanti di vita che sembra uno spezzone di un Late Show). Altri, semplicemente, non sanno far bene neppure con ciò che di accettabile si fornisce loro. Persino Jeff Goldblum (David, nel film), Judd Hirsch (suo padre) e Bill Pullman (il Presidente degli USA nella prima pellicola) – i pezzi da novanta di questo sforzo cinematografico (per gli spettatori, mica per altri) – non convincono del tutto, nonostante l'esperienza. Forse si possono salvare i giovani Liam Hemsworth (il fratellino di “Thor”), Jessie Usher (nei panni del miglior pilota di caccia del mondo, come fu per il personaggio di Will Smith nel precedente film) e Maika Monroe (la figlia dell'ex-Presidente), che pur non eccellendo riescono comunque a dar un minimo di spessore a personaggi privi di un forte background, o che nello scorso film avevano funto magari solamente da comparse. Bisogna ammettere, poi, che tutti risentono della povertà dei ruoli che devono impersonare.

Qualcosa di apprezzabile c'è: i molti cameo e la ricomparsa dei vecchi attori fanno sorridere, anche quando sono del tutto senza senso o poco credibili. Il comparto grafico è eccellente. Temo non basti, però.
Nessuna idea originale, mancanza di mordente, una sceneggiatura piena di buchi e l'azione spesso fine a se stessa e poco interessante – oltre che una colonna sonora abbastanza anonima, non fosse che per il vecchio theme – consegnano un prodotto finale che lo spettatore più nostalgico dovrà vedere, solo per poi scuotere la testa al ricordo della vecchia fatica di Roland Emmerich.
E dire che qualche candidatura a qualche premio il film l'ha già ricevuta. Bah.
Era meglio lasciare i morti dove stavano: per me, questa “resurrezione” faceva meglio a non avvenire.

giovedì 8 settembre 2016

L'altra ragione del successo delle App (di giochi)

Un titolo un po' lunghino, stavolta, ma volevo essere esplicito e delimitare con chiarezza i margini della mia riflessione.
Sappiamo tutti che le applicazioni di giochi (per android o ios, non fa differenza) godono di grande successo nel mondo odierno e la ragione più lampante di tutto ciò, quella che anche un criceto che non è mai uscito dalla sua ruota saprebbe darti, è che sfruttano la mobilità degli smartphone per permettere un piccolo momento ricreativo in ogni contesto.
Fin qui, non ci piove: avere tutto il proprio mondo ludico (ma anche social e multimediale) racchiuso in un un unico apparecchio elettronico è una comodità incredibile, senza contare che lo smartphone mantiene la sua funzione principale e vi affianca molte altre che una console portatile non permette. E poi è meno ingombrante, solitamente, o comunque socialmente più accettabile (N.B.: su questo punto in particolare vorrei tornare in futuro, perché mi sento sempre un po' più osservato, se non addirittura criticato, quando gioco al DS in pubblico, quasi si trattasse di un hardware esclusivamente per bambini... ma sto uscendo dal seminato).
Bene, tutto vero, ma viene da chiedersi... e i difetti? Anche quelli sono piuttosto evidenti: software studiati per girare solo su determinate versioni del sistema operativo, oppure appositamente scarsi quanto a grafica per permettere a molte più persone di usufruirne; ma ancora gameplay ripetitivi e a tratti ingenui, sbilanciamenti nelle dinamiche di gioco e piccole operazioni economiche in-app che svuotano il portafoglio digitale di tanta parte d'utenza, impoverendo nel contempo anche l'intera proposta ludica.
Allora come mai il successo delle app di giochi mantiene ancora un tale margine di download e vendite? Come può porsi come il (futuribile) nuovo mercato dell'intrattenimento digitale, con buona pace del sempre-florido-ma-non-troppo settore console?
Io credo che, al di là della già citata portabilità – che svolge certo il ruolo cardine nel grande successo delle game-applications – vi sia un altro fattore che coadiuva al raggiungimento di simili traguardi. L'“offerta continua” o, per meglio dire (tanto sto coniando io questi termini), l'“offerta in continuo miglioramento”.
Già, perché se ci pensate bene, la lotta è impari: sulle console, che pure possiedono una maggiore potenza di hardware, i giochi devono arrivare completi, o al massimo migliorabili tramite qualche patch e ampliabili grazie ai DLC... e stop, nulla più. Il prodotto deve essere finito, chiuso, già intero nella sua essenza al momento del rilascio, o verrà accolto in malo modo da critica e consumatori, fan compresi (si pensi al recente Street Fighter V, commercializzato inizialmente senza la possibilità di accedere all'intera offerta ludica). Questo non accade per le App di giochi, anzi: ci si aspetta che l'opera non sia completa, che sia ancora in lavorazione, e si accettano di buon grado modifiche sostanziose al gameplay, alla durata complessiva dell'esperienza e alle modalità di intrattenimento. Insomma, arrivano con una base (per quanto solida) scarna e si arricchiscono nel tempo.
Certo, il metodo funziona soprattutto per quelle applicazioni rilasciate gratuitamente, dove il rientro economico prende il via per mezzo di pubblicità o piccole spese interne al gioco, mentre dall'altro lato abbiamo dischi dal costo elevato, se non elevatissimo. Eppure, non riesco a fare a meno di pensare che sia proprio la costante voglia di novità a smuovere l'utenza e che, almeno in questo, le App di giochi siano avvantaggiate.
Prendiamo il caso Pokémon Go (analizzato al momento del lancio in quest'altro topic: http://imondiinpiu.blogspot.it/2016/07/pokemon-go-tra-critiche-e-complimenti.html ): pur potendo vantare un sistema che sfrutta appieno le reali potenzialità “portable” dello smartphone – caso non unico, ma quasi, nella vasta offerta dei vari Store – il suo successo è in netto calo, negli ultimi tempi. Un bilanciamento fisiologico, dovuto alla scrematura iniziale tra i gamer appassionati e quelli più casual non catturati nella rete del gioco (o meglio, nella pokéball), ma che vede anche il manifestarsi di un problema più strutturale, un problema che alla lunga produrrà il suo definitivo abbandono, se non verrà effettuato un cambio di rotta: la mancanza di varietà. Nessuna novità sensibile, infatti, è ancora stata introdotta e l'intera esperienza ludica si restringe a una sorta di simpatico collezionismo e qualche sporadica (e poco varia) battaglia contro “halo” dei pokémon avversari. Va bene, Pokémon Go è passabile di miglioramenti e sicuramente in futuro ve ne saranno, ma per ora proprio questa staticità, questa mancanza di rinnovamento e di aggiunte, in realtà tipiche nel mercato delle App dei giochi, mi pare il problema essenziale del prodotto in questione.
Un discorso analogo, secondo me, lo si può fare per gran parte dei software di intrattenimento presenti sul mercato, ad eccezione forse soltanto di quelli che fanno della ripetitività lo scheletro della loro esperienza (salvo poi aggiungere comunque livelli e piccolezze, come in molti puzzlegames).
Una riflessione come un'altra, che spero vi porti a guardare l'argomento da una nuova prospettiva. Voi che ne pensate?


lunedì 5 settembre 2016

Il Sorriso

Bello,
bello come il mondo può essere un sorriso,
come un peso sull'anima che sparisce,
come la frescura dell'acqua sul sudore,
come l'ultimo abbraccio di un morente,
come l'idea che hai del tramonto.
Bello,
bello, bello, bello come una canzone,
bello da gridare la propria felicità,
bello come l'attesa di un bambino alle giostre,
come la fine di un finanziamento,
come una bolletta che non devi pagare.
Bello,
bello e straordinario; bello, unico e immediato,
come ciò che è gratis e ciò che scalda senza bruciare.

Quel tuo sorriso è come ciò che è bello,
solo... un po' più bello.

venerdì 2 settembre 2016

BlogScreen: Suicide Squad




Ho visto questo film da un po' e vi porto la recensione con colpevole ritardo, ma di tutto e di più è già stato detto: chi lo odia, chi lo salva al pelo, chi lo adora. Onestamente, io non saprei bene dove posizionarmi, ma condivido le obiezioni e i pregi riconosciuti finora.
È un film che dura abbastanza, sulle due ore, ma non ci si accorge dell'effettiva lunghezza; non tutto il film, però, mantiene alto il livello di interesse nello spettatore.
È pieno di assurdità e più di qualche punto debole, ma in fondo stiamo parlando di una storia adattata dai fumetti e trasmessa al cinema per l'idea alla base, molto interessante (un team di soli cattivi? Sulla carta è valida, non fosse che poi non si riesce a giustificarne la necessità senza scadere nella banalità...).
Ci sono buone recitazioni, affiancate da alcune non proprio eccelse ed altre sopravvalutate: Will Smith, giusto per fare un esempio, a mio parere salva e arricchisce un personaggio altrimenti insipido come Deadshot, mentre Margot Robbie, che pure dimostra talento, calca un po' troppo la mano sulla caratterizzazione del suo personaggio e finisce per renderlo poco appetibile (e qui, uno stuolo di fan di lei e di Harley Quinn – e soprattutto di lei nei panni di Harley Quinn – mi falcidierà: migliora le cose aggiungere che l'ho trovata perfetta nelle scene dedicate ai flashback?). Jared Leto, da questo punto di vista, centra meglio il bersaglio, benché sia aiutato da un numero di minuti su schermo complessivamente inferiori a quelli dell'attrice, cosa che gli impedisce di stufare lo spettatore. I personaggi, però, servono a poco, nel contesto creato: solo un paio di loro hanno “veri” superpoteri e solo uno può fare realmente la differenza contro il cattivone di turno. Gli altri finiscono inevitabilmente per colorare lo schermo con le loro psichedeliche personalità.

Il problema di fondo, infatti, non sono tanto gli attori, quanto i ruoli interpretati e le frasi che vengono messe loro in bocca. Non che la recente ondata di film supereroistici abbia offerto finora dialoghi degni di un dramma Shakespeariano, ma non ricordo di aver mai sentito un tale numero di banalità, controsensi pregni di moralità spicciola e gag “mache” tutte in una volta.
La storia, di per sé, parte da premesse interessanti: una banda di cattivi obbligata a servire il governo, allestita allo scopo di affrontare missioni non alla portata delle forze armate e, per questo, probabilmente suicide (da cui il titolo, immagino)... e qui sorge il primo problema: se la domanda è “Come fermiamo un ipotetico Superman cattivo?”, la risposta non può certo essere questa. Il fumetto, da quel poco che ho carpito in giro per la rete, aveva una motivazione più solida.
Il tutto è sviluppato in maniera un po' troppo lineare, senza grossi colpi di scena e nessun vero momento di pathos. L'unico picco di tensione, anzi, mi è parso anche il punto più debole della sceneggiatura: una conversazione tra i protagonisti che mette in mostra un nocciolo di bontà dietro le loro maschere violente. Un sentimento, coadiuvato da un passato doloroso, che mal si sposa col loro ruolo di grandi cattivi.

Mettiamolo in chiaro, il film mi è piaciut... piaciucchiato, diciamo. L'ho trovato interessante e, soprattutto, mi ci sono sollazzato senza troppi fastidi. Si poteva fare meglio, certo.
Ora, io non sono uno sceneggiatore e non avrei il diritto di criticare il lavoro altrui – specie se esiste un canovaccio di fondo da rispettare – ma come consumatore posso fare le mie osservazioni e chiarire che, pur non sapendo molto del fumetto originale, è normale che il pubblico odierno si aspetti qualcosa di meglio: antagonisti più carismatici, per fare un esempio (una modella che danza in modo stupido e un gigante tutto muscoli e niente cervello? Davvero?), e protagonisti pseudo-malvagi meno macchiette.
Il più grosso limite di Suicide Squad, comunque, rimane probabilmente l'incapacità di sfruttare appieno il potenziale a disposizione. L'idea, il cast, i moderni effetti speciali (già che si parla di film supereroistici, o meglio superantieroistici)... molte cose, insomma, facevano ben sperare. Ci si ritrova tra le mani un prodotto che punta tutto sul carisma dei principali componenti della squadra (e del Joker), sciorinandolo in modo piuttosto efficace per la prima metà della pellicola, finendo però col trascurare tutti quegli elementi che avrebbero potuto rendere buona anche la seconda... o quantomeno salvarla.
Un film, insomma, dalla grande personalità, che però si “suicida” proprio per la voglia di far risaltare il suo estro a scapito di tutto il resto.
Divertente da vedere, magari a casa, ma lascia un po' di amaro in bocca, specialmente a chi, come me, è felice del successo del filone supereroistico degli ultimi anni e gradirebbe vederlo sempre più alla ribalta.

Comunicazioni di servizio #1

Era da un po' che non illustravo la programmazione del blog. Che ne dite del nuovo formato per le comunicazioni di servizio? (segue un lungo silenzio per il pubblico inesistente)
Sarò brevissimo: sono previste altre due poesie per la prossima settimana, ma entro oggi farò uscire un testo ben più corposo, ovvero la (tardiva) recensione di Suicide Squad! Buona lettura!

Blaze

giovedì 1 settembre 2016

Lascia

Non salvarmi, lasciami andare;
lascia che soffra e che scopra,
lascia che il mondo mi cada addosso.
Lasciami sbucciare il ginocchio,
lasciami tirare su da solo.
Lasciami credere, lasciami sperare,
lascia che il mondo mi derida.
Lascia che vinca, lascia che perda,
lasciami trionfare fino in fondo.
Lasciami l'onanismo letterario
e lasciami l'amore solidale,
lasciami il chiedere se esiste un dopo.
Lasciami l'orgasmo tra i respiri mozzati,
lasciami lo sgomento per tutto il male,
lasciami vivere come se fossi immortale.
Lascia che il tempo faccia il suo mestiere,
lascia che ad insegnarmi sia la vita.
Lascia che faccia i miei sbagli
e lasciameli rivendicare.
E alla fine, volente o no, dovrai lasciarmi del tutto,
ma se mi avrai lasciato fare,
non mi potrai lasciare più.

mercoledì 31 agosto 2016

BlogScreen: The Shallows (Paradise Beach - Dentro l'incubo)

[Scusate la premessa, ma prima di parlare del film sono costretto a criticare la traduzione del titolo. Lo so, lo so: c'è così tanto da dire riguardo al modo – tutto nostrano – di cambiare il nome delle pellicole al cinema che ormai se ne potrebbe fare uno sport; e ri-lo so, dietro ci sono strategie di pubblicità e marketing per rendere il prodotto più accessibile e identificabile dalla massa dei consumatori... però, per le bobine di Hitchcock, mi spiegate perché è tanto necessario togliere una parola inglese per poi ficcarcene comunque altre due, seguite da un sottotitolo italiano? E ri-ri-lo so che “Paradise Beach” chiunque riesce a tradurlo, mentre “The Shallows” probabilmente non fa emergere alcun ricordo scolastico, né fa scattare assonanze, cosicché ti tocca cercartelo su un dizionario (a proposito, in un simile contesto, il mio dice che si tratta del termine per “acque poco profonde”, il che ha perfettamente senso), ma accidenti alla cinepresa di Spielberg! Perché cavolo sostituisci l'inglese con l'inglese, se tanto poi ci devi mettere un sottotitolo come “Dentro l'incubo”?
Non si poteva, come poi si fa di solito in questi casi, lasciare il titolo originale e legare a quello la nostra “poetica” evocazione? Non erano abbastanza esplicite le locandine con la spiaggia in lontananza, il mare caraibico, lo squalo sul fondale e la bella Blake Lively che surfa poco sopra?
Vabbé, chiudo qui questo discorso e mi concentro sulla recensione vera e propria...]




Che dire? Le premesse del film erano piuttosto chiare sin dal trailer, non mi aspettavo chissà cosa... e forse, visto con questo spirito, il film raggiunge pienamente il suo scopo. Non ha la pretesa di porsi a paragone coi grandi colossal che lo hanno preceduto nel trattare il medesimo argomento; nessun confronto, quindi, o almeno nessun guanto di sfida allo “Squalo” o ai suoi sequel, magari giusto un tentativo di svecchiamento rispetto al glorioso passato e una presa di distanza dalle malecopie che hanno affastellato il cinema negli ultimi tempi. Stop. Per il resto, ciò che si percepisce è un puro intento ricreativo. Ora, io non so se dietro al semplice intrattenimento, il regista Jaume Collet-Serra e lo sceneggiatore Anthony Jaswinski avessero pensato di nascondere una qualche morale di fondo, una magari sull'importanza del rispetto della vita e il bisogno di lottare, ma non lo credo. Sì, magari ci sono due o tre riferimenti alla catastrofe portata dall'uomo in luoghi incontaminati, o al fatto che arrendersi equivale a lasciar morire il proprio vero io e le proprie naturali inclinazioni. È persino chiaro l'intento, un po' forzoso, di inspessire la trama di un significato più profondo, quello di un viaggio verso la scoperta di se stessi e della propria forza interiore... tuttavia, l'intento primario rimane preponderante: divertire, alzare la tensione, regalare un po' di emozioni forti a buon prezzo e, perché no?, strappare qualche sorriso nel vedere la protagonista trovare il coraggio per affrontare la sua (improvvisa) nemesi.

La trama è particolarmente lineare, fuori e dentro il sottotesto: una ragazza in cerca di una risposta su cosa fare della propria vita abbandona gli studi di medicina dopo la morte della propria madre, avvenuta a causa di un brutto male. Rivisitando i posti in cui quest'ultima era stata durante la sua gravidanza, ritrova la spiaggia spesso vista nelle foto di casa: un luogo splendido e disabitato dove lei era solita fare surf. Guarda caso, anche alla protagonista piace farlo. Rimasta sola in quel mare, prima di poter tornare a riva a riposarsi, la ragazza viene attaccata da un enorme squalo ed è costretta a rifugiarsi su alcuni faraglioni – o scogli, non è dato saperlo – in attesa di qualche soccorso. Solo che, come detto, si tratta di un luogo sconosciuto ai più... e via con la classica lotta per la sopravvivenza!

Apprezzabile la ridotta presenza di jump scare, spesso abusati in questo genere di film, a favore di una ben più proficua tensione narrativa, così come la recitazione della protagonista e la fotografia (anche se, visto il paesaggio prescelto, credo sarebbe stato davvero impensabile sbagliare proprio quest'ultima). Buona anche la regia e intrigante quanto basta la storia, nonostante qualche banalità e più di una situazione al limite del credibile. Il tutto, comunque, è compresso in un tempo accettabile: la durata del film, infatti, arriva a malapena all'ora e mezza.

Insomma, sarò onesto: sono andato a vedere The Shallows aspettandomi una cagata pazzesca e, nel suo essere comunque un prodotto sopra le righe, alla fine sono stato piacevolmente accontentato. Potrebbe valere la sua visione al cinema per la buona dose di effetti speciali usati per rendere credibile lo squalo (davvero ben fatto) e per il clima buio e silenzioso della sala, particolarmente adatto alla pellicola... ma da qui a consigliare il biglietto ne passa di acqua sotto la tavola da surf!

lunedì 29 agosto 2016

Recensione: Mistborn - L'Ultimo Impero


Brandon Sanderson
Chi mi conosce sa quanto apprezzi Brandon Sanderson, scrittore statunitense fedele principalmente al genere fantasy, con qualche sortita nello sci-fi. Mi soffermo rapidamente sullo stile dell'autore per non dover riprendere il discorso quando recensirò altri suoi libri. Oltre ad avere una forma semplice ed efficace – un tipo di scrittura che non grida al miracolo, ma sa farsi decisamente apprezzare – Sanderson ha la grande capacità di creare ambientazioni solide e dense di informazioni, che puntualmente rifila al lettore poco per volta. Già, perché è proprio questa la sensazione che si ha con i suoi romanzi: quella di essere di fronte a un grande e vasto mondo da scoprire senza fretta. Maestro nell'elaborare per filo e per segno le basi dell'innaturale nei propri universi (che si tratti di peculiari forme di magia o superpoteri), Sanderson non viene mai meno al patto narrativo col lettore e non infrange i limiti imposti dalla sua ambientazione. In pratica, fornisce al lettore – e a se stesso – delle regole precise e poi, abbastanza sorprendentemente in un ambito facile alle esagerazioni e ai deus ex machina, le rispetta: questo esempio non è fatto a caso, dato che lo stesso autore ha definito dei macro-dogmi nella costruzione di ambientazioni, personaggi e storie fantasy che si impone di seguire ad ogni nuova fatica letteraria (e che raccomanda anche agli altri aspiranti scrittori).
Questo preambolo necessario introduce perfettamente l'identità, il fulcro stesso di Mistborn – L'ultimo Impero. Primo libro di una saga che conta diversi romanzi (una prima trilogia, un racconto di raccordo e una seconda trilogia ancora in corso d'opera), è ritenuto dai più il miglior libro dell'autore e, benché io non abbia letto la sua intera produzione, posso immaginare si tratti di voci fondate.
Senza nulla togliere al resto delle sue fatiche, Mistborn – L'Ultimo Impero presenta tutte le caratteristiche che un lettore di fantasy accanito potrebbe desiderare: freschezza e originalità dell'ambientazione, personaggi credibili (e pregni di limiti, il che non guasta), una storia avvincente e un intreccio che non manca di stupire, grazie a qualche ottimo colpo di scena e a una sapiente regia. Non annoia e non stanca, due concetti che per me hanno un significato leggermente diverso: infatti, non solo non mi è mai successo di chiedermi se avesse senso continuare a leggere piuttosto che fare altro, ma neppure mi è mai capitato di dover posare il libro, per quanto ben fatto, per il bisogno di svagarmi altrimenti.

La trama è in realtà piuttosto semplice, nella sua ossatura: ci troviamo in una società distopica dove solo pochi hanno il potere, i Nobili e l'Imperatore su tutti, e moltissimi vivono in schiavitù, gli skaa (in effetti, si potrebbe ravvisare una critica al nostro mondo e i suoi sistemi, ma il parallelismo è un po' banale e probabilmente forzato...). Da qui prende le mosse un famoso fuorilegge, Kelsier, che è stato capace di spezzare le catene dell'oppressione e che ha deciso di mettere insieme una piccola organizzazione al fine di rovesciare l'impero “malvagio” e ridare la libertà ai suoi simili. In questo clima di ribellione viene a trovarsi coinvolta una ragazza, Vin, la protagonista del libro, che grazie alle sue capacità speciali riesce a farsi accettare nella banda del fuorilegge e a prendere parte a una guerra mai vista prima.
Premesse quasi banali, vero? Beh, non proprio, ma il sentore di già visto è certamente forte. Non ha importanza, però, perché l'originalità e la novità si trovano altrove. Non mi dilungherò a parlare del continuo della trama, che presenta un'appagante raccolta di indizi utili a eviscerare il sorprendente finale e che, alla stregua di un puzzle, trovano in conclusione la loro collocazione nell'insieme narrativo; né mi soffermerò ulteriormente sui personaggi, che guadagnano spessore nella loro costante crescita psicologica, là dove è possibile, o nella scoperta della loro reale natura.
È la stessa struttura fantasy a guadagnare la scena, piuttosto: i protagonisti e buona parte degli antagonisti sono infatti in grado di sfruttare un particolare tipo di alchimia, chiamata “Allomanzia”, che concede loro poteri peculiari, tra cui (ne cito solo alcuni) l'amplificazione dei sensi, l'incremento delle proprie capacità fisiche e una strana forma di magnetismo, tramite la quale i personaggi possono attirare a sé, o respingere, metalli e compiere balzi enormi. Queste forma di magia, più vicina all'ambito fumettistico che alla cultura fantasy tradizionale, è garantita dall'ingestione di piccole quantità di specifici metalli, poi consumati dall'allomante di turno tramite una sorta di mistica combustione interna.
Possedute in misura minore dai misting, che possono sfruttare un singolo tipo di potere, e in toto dai mistborn, individui che riescono invece a usare ogni tipo di metallo dalle proprietà accertate, queste abilità soprannaturali sono perfettamente regolamentate da Sanderson e fungono da fulcro centrale di tutta l'ambientazione.




Il mio consiglio è quello di immergervi nella lettura senza attendere oltre, perché Mistborn – L'Ultimo Impero sa colpire lì dove serve e lo fa con un ritmo incalzante e fresco, dosando perfettamente la quantità di azione, analisi psicologica, narrazione degli eventi e presentazione dell'ambientazione.
Un mosaico, o magari puzzle – per riprendere la metafora già inserita in precedenza – certamente ampliabile (non a caso si tratta dell'inizio di una saga), ma pienamente soddisfacente anche preso da solo.

Piccola nota finale per chi teme di impelagarsi in una serie di lunghe letture: sebbene il libro conti parecchie pagine (oltre le seicento, a seconda dell'edizione), è perfettamente fruibile anche senza completare la prima trilogia, salvo il piccolo scotto di non recuperare il background dietro alcuni dei misteri lasciati volutamente in sospeso – e approfonditi nei testi successivi.

venerdì 22 luglio 2016

Pokémon Go: tra critiche e complimenti

È sulla bocca di tutti, è quasi main-stream parlarne su un blog o su un forum, quindi potreste domandarvi: perché cedere alla moda anche su questo spazio web?
È vero, fino a oggi ho sempre evitato di soffermarmi su argomenti di attualità che facessero leva su un trend di successo o su mode multimediali e social, ma questo non vuol dire che io abbia un simile limite per regola, anzi: la risposta più ovvia che potrei dare al quesito è che, in primis, non sono affatto un tipo “elitario”, uno di quelli pronti a snobbare ciò che il resto della popolazione trova esaltante – anche se spesso si tratta di un'eccitazione momentanea. No, non è un vanto, è la semplice realtà: non sono né pro, né contro ciò che interessa le masse, ma come ogni persona dotata d'intelletto (sì, questa presunzione può essere annoverata stavolta tra i miei demeriti) so di dover provare un prodotto prima di poterlo giudicare, o quantomeno di doverne approfondire la conoscenza per poter poi esprimere un parere. Purtroppo, questa non è una consuetudine praticata nel globo etereo del www. Quel che è peggio, sempre più spesso si sciorinano giudizi col tono di chi non sembra ricordarsi della parola magica “personali”.
Ecco perché non parlerò granché del gioco in sé: non è lo scopo di questo breve articolo.
Ciò che voglio trattare è complesso e banale allo stesso tempo, ma soprattutto spero non vi offenderà: parlo della mania di svalutare ciò che si ha di fronte, tacciandolo in modo negativo – e fin qui nulla da dire – senza però avanzare alcuna critica reale e costruttiva a sostegno della propria tesi. No, non prendetemi nemmeno per un “buonista”, non voglio dar meriti a chi non ne ha... solo che non mi pare questo il caso. Anzi, non mi pare che si sia fatto proprio un granché per evidenziare quali siano i pregi di questa applicazione.

Andiamo per ordine, prima di ingarbugliare il discorso con un approccio fatto troppo “di pancia”.
Poche settimane fa è stato rilasciato in gran parte del globo l'applicazione per dispositivi mobili “Pokémon GO”, basata sul noto brand Nintendo che vede i videogiocatori impegnati a catturare e allenare creature chiamate Pokémon, appunto. Già celebre per le molte trasposizioni (in primis videoludiche e televisive), la saga pare intenzionata a conquistare un'ampia fetta di pubblico tra coloro che possiedono smartphones e tablet proprio grazie al software in questione – sviluppato da Niantic. Questo ingegnoso programma si affida a molte utility come il localizzatore gps e la mappatura globale di Google Maps per permettere a coloro che ne fanno uso di individuare nell'ambiente circostante i “mostri tascabili” del marchio nipponico. Il prodotto, però, non si limita a segnalare un luogo da raggiungere per poter effettuare la cattura, anzi: grazie alla Realtà Aumentata, la tecnologia attuale permette di visualizzare sulla telecamera del proprio dispositivo il pokémon di turno e simulare così il lancio della celebre sfera rossa e bianca, che ne garantisce la conquista. Gli animali fantastici presi potranno poi essere potenziati e fatti scontrare con quelli di altre persone, appositamente lasciati in luoghi di sfida chiamati “palestre”.
Mi fermo qua con le spiegazioni, per non esagerare con le informazioni che di certo già conoscerete (e che potrei approfondire, salvo annoiarvi con discorsi che nemmeno mi interessano, al momento).
Le dinamiche, però, sono in sostanza queste e per ora si limitano a poche operazioni. Va precisato subito che una delle critiche più frequenti risiede proprio qui: la scarsa varietà insita in questo gameplay... ma va anche fatto notare che, limiti oggettivi a parte, si tratta pur sempre di un'edizione non completa, fatta uscire sul mercato prima del suo perfezionamento (al momento della scrittura di questo articolo siamo alla versione 0.29, mi pare).

Seguiamo la bussola del mio discorso, però, perché a difenderne i limiti – sempre che qualcuno voglia farlo – ci penseranno altri. Quello che mi preme evidenziare sono i vantaggi che accompagnano il prodotto, soprattutto la sua capacità di sfruttare appieno il potenziale portable dei cellulari di ultima generazione. Non si tratta di un pregio da poco, né infatti parliamo della prima applicazione che ne abbia messo a frutto le dinamiche da hardware “portabile” (qualcuno ha detto Ingress?). Pensiamoci bene: se si trattasse semplicemente di un videogame, il cellulare o il tablet (persino gli ultimi usciti) non potrebbero mai reggere il confronto con le home console o i PC costruiti appositamente per il gaming, no?
«Ah, ma io ci gioco dove mi pare!» potrebbe dire un bastian contrario qualunque. E avrebbe ragione, perché, nonostante esistano console portatili di ben altro livello (Nintendo stessa – tanto per citare un caposaldo del mercato – basa buona fetta del suo mercato di oggigiorno sulle diverse versioni del DS), la maggior parte delle persone che possono permettersi di investire qualche centinaio di euro nelle nuove tecnologie non possiede simili apparecchi, mentre uno smartphone sì. Sono sicuro che il “casual gamer” abbia fatto la fortuna delle applicazioni ludiche su playstore e applestore, ma un'altra ragione sposa questa indissolubile verità e permette a Pokémon GO di avere un simile, incredibile successo planetario. Il segreto (si fa per dire) risiede proprio nella sua capacità di mettere in pratica la massima potenzialità dei dispositivi mobili: la mobilità stessa, appunto. Andare in giro per le strade della propria città acquista infatti un flavour particolare, che per alcuni – come il sottoscritto – ha il sapore nostalgico dell'infanzia e del divertimento, per altri quello della novità; per tutti, credo, vince l'idea di utilizzare il cellulare sì, per scopi ludici, ma in un modo che non sarebbe possibile riprodurre altrimenti (salvo forzature o creazione di apparecchi appositi... ma la forza di Pokémon GO risiede anche nell'aver sfruttato qualcosa di preesistente e diffuso come lo smartphone).
Oltre a questo, potrei decantare anche gli altri vantaggi, tra cui spicca certamente il fatto che per “giocare” una persona debba necessariamente camminare, uscire, visitare luoghi di interesse, monumenti pubblici, possibilmente stringere amicizie per scambiarsi informazioni sui luoghi migliori dove effettuare catture e simili. In quest'ultimo caso, la socializzazione multimediale sfocia nel reale a un livello che va ben oltre i limiti imposti da Facebook e gli altri media di pari genere.
Certo, il software è ancora pieno di imprecisioni e le segnalazioni dei luoghi da visitare sono a volte fuorvianti, certe volte persino ridicole, ma qui entra in gioco il singolo, la persona che deve saper distinguere il confine tra gioco e realtà – come quando ci spiegavano da piccoli che i film in tv non erano cose davvero accadute.

Su questo fronte – e torno quindi alla mia critica iniziale – una gran fetta del pubblico del web sembra però non aver ben chiaro il concetto e addita Pokémon GO come il male sceso in terra: isteria di massa per una creatura comparsa a Central Park, macchine ferme in mezzo alle strade, stazioni di polizia invase da cittadini in cerca di mostriciattoli... alcune cose vere, altre false (ah, la mancanza di fonti! Quando mai è stato un problema su internet?), ma tutte rigorosamente commentate, additate, portate a sostegno delle proprie tesi anti-Pokémon, spesso con risultati persino comici (come suggerire ai poveri allenatori di “andare a fare un giro, piuttosto che perdere tempo dietro a quelle cagate per cellulare”, quando di andare in giro, appunto, già si tratta). (Non ricordo la fonte, ma tanto non serve, no? :P  n.d.B.)

Nella maggior parte dei casi, credo io, c'è una prospettiva piuttosto ristretta, una visione che non ha voglia di ampliarsi (perché non penso si tratti di mancanza di intelletto), che non ritiene doveroso prendere in esame tutti i presupposti e i pro/contro di questa applicazione. Non sento esaltarne i pregi, come dicevo, ma solo parlarne male, tanto che mi viene da pensare si tratti di una moda.
Ovviamente la compagnia che lo ha prodotto dovrà prestare attenzione alle segnalazioni, porre le giuste correzioni dove possibile, ma solo il singolo è responsabile delle proprie azioni e a lui, al massimo, vanno fatte risalire le critiche e i dubbi che in questo periodo ho visto sollevarsi.
In fondo, che male c'è se una persona consuma rapidissimamente la batteria del suo dispositivo mobile (ecco, un difetto piuttosto evidente, siete contenti?) per andare a caccia di pokémon? Che colpa ha il gioco se un cretino lascia la macchina ferma in autostrada (invento, spero non sia successo davvero) perché il cellulare gli aveva segnato un mostriciattolo nelle vicinanze? Dareste la colpa all'Ikea se una delle mensole fornite nell'imballaggio vi cadesse sul piede per la vostra disattenzione? O alla Algida perché, mangiando troppi cornetti, vi è venuto il mal di pancia?
Quanto al pericolo per i bambini: credete veramente che risieda in Pokémon Go e non nel fatto che l'uso dello smartphone stesso richiede ormai un certo tipo di educazione al buon consumo? Non sarà ben più a monte, il problema?
Io credo ci sia da riflettere, al di là delle mie provocazioni e della retorica, perché il discorso che sto affrontando in questo ambito è qualcosa che in realtà potrebbe facilmente spostare il suo focus senza smettere di avere senso: non è stata la prima e non sarà l'ultima novità tecnologica a dare voce ai “malparlieri per sport”.

Concludo con un inciso che, spero, cambierà completamente la vostra prospettiva dell'articolo: io non gioco, né ho intenzione di giocare, a Pokémon GO.
Lo dico solo a fine testo perché mi faceva piacere che pensaste a me come a un appassionato e sono convinto che, magari, a scoprirlo solo ora rivedrete parte delle vostre critiche più banali.
Non mi interessa il gioco in sé, infatti, quanto le persone che parlano senza cognizione di causa, tanto per dar fiato alla bocca. A costoro (e solo a costoro: chi muove critiche ragionate ha tutto il mio rispetto) suggerisco di ricordare il noto aforisma: “A volte è meglio tacere e sembrare stupidi che aprire bocca e togliere ogni dubbio.

domenica 3 aprile 2016

La stanza dell'anima mia

C'è
Un luogo nascosto nell'anima mia;
Non è segreto, non serve una chiave:
Basta bussare per poter entrare.
Solo che serve una via precisa,
Una mappa per l'entrata, ma non per l'uscita.

Lasciare quel mondo non è complicato,
Non ci si fa male, non si rischia niente,
Solo bisogna esser ben coscienti
Che tutto si rompe, tanto è delicato.
C'è fantasia e una gran bellezza,
Ci son cocci ovunque e poi debolezza.

Non è  un posto triste in cui restare,
Ma più di qualcuno l'ha trovato stretto,
Oppure chiassoso, o confusionario;
Per altri era infantile, per alcuni visionario.
Qualcuno ha apprezzato anche i suoi sogni,
Qualcuno li ha pianti, qualcuno li ha risi.

Ma c'è  un abitante, un bambino volgare
Che sente il peso di ogni realtà.
Vorrebbe fuggire da ogni ombra
E dalla rima con cui le racconta:

"C'era una storia, che ormai non c'è più,
C'erano amici, parenti e c'eri anche tu.
C'era un pensiero costante e pieno di vita
C'era la bellezza che sfuggiva tra le dita.
C'era il dolore di una crescita obbligata,
C'erano strani misteri dietro ogni data.
C'era un abisso e un uomo diviso,
C'era un canto magico e c'era il riso.
C'eran dolori mai compresi davvero,
Come il bianco spalmato sul nero.
C'era un pensiero meno contorto,
C'eran amici e una cassa da morto.
Il corpo morto non era il mio,
Ma moriva il mio cuore e forse Dio."

Poi c'è l'adulto, che la rima disdegna,
Dice quel che vuole puntando su altro.
È la fantasia del sentimento che conta,
L'immagine efficace con cui lo si racconta:

"Vivere è un viaggio in canoa,
In una palude, con anime affini,
La barca traballante,
Mentre ti volti di tre quarti
A contemplare la compagnia."

Poi ci sono io, che parlo a metà:
Dell'uno e dell'altro unisco le voci.
La loro magia perciò si compie
Quelle parole volan per la sala,
La stanza vuota dell'anima mia.

Non è un posto segreto, per chi vuol venire,
Ma ci son cocci di sogni, amori perduti,
Fiaccole spente e polvere nera,
Per chi vuol guardare solo l'abisso
E non i sogni che vi danzano sopra.
Ma c'è un adulto, un bambino e ci son io;
Qualche storia sbagliata, una giusta e forse anche Dio.

giovedì 11 febbraio 2016

L'importanza delle liste (e qualche informazione di servizio)

Sebbene a corto di tempo – poiché, come tutti, continuo a fare i conti con gli impegni improrogabili (di lavoro e di contorno), progetti creativi e scadenze varie – voglio mantenere l'obiettivo di pubblicare qualcosa sul Blog con una cadenza accettabile, o quantomeno non troppo dilatata: diciamo settimanale, al massimo ogni decade.
Per riuscire nell'intento, come mi ero ripromesso non troppi post addietro, non si tratterà ogni volta di lunghi articoli, ma potranno trovare spazio anche brevi riflessioni, poesie o stralci di racconto. Questa soluzione, fra le altre cose, è una delle principali critiche costruttive che mi sono state rivolte... che non si dica che non ascolto i miei lettori, dunque (e qui ci starebbe bene un'emoticon che fa la linguaccia, se non fosse che sto cercando di mantenere un tono abbastanza formale)!

Bene, chiarita la premessa, passo dunque (molto coerentemente, se mi è concesso) al pensiero di oggi: l'importanza, nella vita di tutti i giorni, delle “liste”. Non quelle della spesa, sia ben inteso – anche se non si tratterebbe di un esempio poi così lontano dai ragionamenti che sto per riassumere – quanto delle cosiddette “To Do List” che impazzano oggigiorno sotto forma di software negli app-store, ma che io (e chissà quanti prima di me) utilizzavo sin da bambino, quando il mio tempo libero era tanto abbondante che le cose da fare non avevano bisogno di rientrare all'interno di attente programmazioni.
Non soffro certo di un patologico difetto dell'attenzione, ma a volte anch'io, come molti altri, fatico a trovare la giusta concentrazione. Quando non è la stanchezza a mettere i bastoni fra le ruote, ci pensa la vulcanicità di idee e progetti a complicarmi la vita. Il mio più grande pregio (uno di quelli che mi riconosco senza troppo imbarazzo) rappresenta assieme anche il mio peggior difetto, perché spesso si accavallano troppi impegni, doveri e attività varie.
Ciò che ne risulta, naturalmente, è quasi sempre una difficile selezione all'ultimo secondo, dove ciò che è legato alla sfera del lavoro, della casa e della famiglia ritaglia già tutto lo spazio disponibile, lasciando pochi ed insufficienti rimasugli per poter realizzare e concretizzare il resto dei propositi. Spesso, questa situazione porta a trascurare le proprie passioni e, quasi sempre, risulta evidente come ciò sia dovuto a una cattiva gestione del proprio tempo.



A voi non succede mai di perdervi in vaghe consultazioni delle proprie bacheche sui social-network, o di rimanere più a lungo del dovuto a scorrere canali e video su youtube? No? Beh, a me sì. Talvolta non si tratta neppure di questo, ma semplicemente si portano avanti troppi progetti contemporaneamente, col risultato che nessuno di essi giunge a concretizzarsi (o quantomeno, lo fa in tempi molto, molto dilatati).

Come risolvere questo problema? Beh, io credo che a questo punto le persone si dividano in due categorie: quelle capaci di organizzarsi in modo naturale, senza troppi artifici, quasi la schematizzazione fosse una loro seconda natura, un istinto... e poi quelli come me, che si avvalgono di liste. Fogli su fogli, digitali o meno, con su scritti gli impegni quotidiani e le attività a cui ancora ci si deve dedicare. Non una semplice agenda, né un memorandum per la quotidianità. Si tratta di uno stratagemma catartico, per come la vedo io, che ci libera dal peggiore dei fattori di distrazione: il pensiero di ciò che rimane da fare.
Già, perché pensando sempre e solo in prospettiva (e come persona vagamente paranoica – un difetto che, ancora una volta, mi riconosco senza troppi problemi – non conosco altra forma mentis) si finisce per non concentrarsi con tutta la propria energia, la propria forza intuitiva e capacità di analisi sulle attività che si stanno svolgendo.
Per me, scrivere una lista è come una liberazione: un cassetto mnemonico visibile e tangibile, dove riporre momentaneamente ogni preoccupazione, ogni “farò”. Tutto cambia, quando si crea una “To Do List” e suggerisco la terapia ad ogni lettore che si riconosca un poco nei discorsi appena fatti.

Poi, per carità, non esiste un rimedio assoluto alle ansie della vita, ma non era una panacea contro lo stress e il quotidiano male di vivere che mi ero riproposto di offrirvi.
La vita si semplifica, però, questo sì. È un po' come l'esercizio dell'occhio sul foglio bianco, avete presente? Quello in cui, ipotizzando di dover fissare un foglio bianco senza riferimenti, oppure pieno di segni grafici, si scopre che lo sguardo vaga senza sosta per tutto il campo. Posto un punto al suo centro e sgombrato ogni altro tratto, però, la vista si focalizza su di esso soltanto.
Beh, fare una lista, per me, significa in fondo questo: liberare il proprio foglio da tutti i tratti distraenti, lasciando solo un obiettivo da raggiungere per volta.


mercoledì 27 gennaio 2016

Vorrei poter dire

Vorrei poter dire che cos'è il dolore,
non già per una vita cara che si spegne
- seppur all'improvviso, seppur ingiustamente -
ma per la morte dell'anima e del giudizio,
l'oblio della coscienza di una moltitudine,
un raptus di follia disteso attraverso gli anni
in attesa di giustificazioni impossibili.

Vorrei poter spiegare la malattia,
non quella che consuma il corpo
ma la psicosi che lascia indifferenti
al male annidato nel nostro animo;
quella paura atavica del non conosciuto
che segna lo straniero come alieno
e non riconosce un fratello senza mostrina.

Vorrei poter raccontare la paura,
non quella momentanea, ma esistenziale
che porta gli uomini a imbracciare le armi,
che spinge all'ignoranza e alla follia,
che non permette la conoscenza reciproca
e rende il mondo un labirinto di dubbi,
lasciando cicatrici per sempre incurabili.

Vorrei poter sentire il vero cordoglio,
ma apprendo il male da libri e poesie,
e non rispondo alla domanda per reticenza,
perché ben so che non è uomo
- e lo è più di molti allo stesso tempo -
chi è costretto a rinunciare alla sua dignità
e a vivere nella speranza di poter raccontare.

Vorrei poter dire che la memoria
è la nostra rete di sicurezza nella storia,
che ci ferma prima di cadere troppo in basso;
vorrei poterlo dire, ma l'odio non conosce tempo
e lo ferma solo il pianto quando ormai è troppo tardi.

Vorrei poter fare qualcosa di concreto
con le mie parole troppo deboli,
conscio di non poter alleviare il ricordo
dell'atrocità protratta con metodo.

Se tu leggerai queste righe ricorda,
non posso fare niente per dire ciò che è stato,
ma riflettici ugualmente, per te, per chi ti è caro,
per l'umanità in bilico e senza quiete.